lunedì 13 aprile 2015

Alieni, no grazie?

L'idea di poter arrivare, un giorno, ad un contatto fisico con una razza aliena è ormai parte dell'immaginario collettivo, non solo di fantascienza, da più di un secolo. Si tratterebbe, se vogliamo essere precisi, di un caso di incontro ravvicinato del terzo tipo, secondo una popolare classificazione.

Il popolarissimo E.T.!
Ed in effetti ogni tanto anche sulla stampa cosiddetta generalista arrivano notizie che magari comunque alla fonte non sono del tutto inventate, nel senso che esiste un riferimento reale, sia pure spesso letto o pubblicato  in maniera parzialmente romanzata o imprecisa. Ad esempio recentemente si è parlato di un'affermazione di fonte NASA secondo la quale in qualche decennio avremo l'evidenza e magari anche il contatto fisico con forme di vita extra-terresti (qui, come riportato da Focus). Oppure, semplicemente, anche più spesso, abbiamo notizie completamente inventate usualmente attribuite a qualche misterioso scienziato da titoli roboanti di qualche sperduta, talvolta inesistente, università in giro per il mondo. In questo caso in genere basta leggere due righe per rendersi conti che siamo di fronte a gossip ufologico, talvolta divertente, senz'altro, ma mai serio.

Rimane vero, però, che il tema ha un suo fascino intrinseco per altro del tutto giustificato. Esiste infatti una disciplina, nota come eso-biologia, che si occupa, al momento in maniera pressoché del tutto speculativa, di considerare il tema della vita extraterrestre in maniera scientifica. E non sarà certo una sorpresa per nessuno scoprire che l'argomento è ampiamente dibattuto, e senza dubbio anche soggetto, come tutto del resto, alle suggestioni culturali del momento.
Qualche decennio fa' l'opinione più diffusa era che comunque il fenomeno "vita" dovesse essere qualcosa di estremamente raro, frutto senza dubbio della coscienza della complessità dei fenomeni coinvolti nei processi biologici che si cominciavano a comprendere in qualche dettaglio. Oggi si è fatta strada invece una visione diversa che tende a pensare che la "vita" possa essere un fenomeno estremamente comune, quasi banale in un certo senso, che si instaura per conseguenza delle leggi della fisica in ogni luogo in cui ci siano delle condizioni minimali.
In entrambi i casi, come si diceva, è agevole vedere qualche influsso del contesto sociale in cui determinate idee vengono sviluppate, e certamente il dibattito è destinato a fiorire nei prossimi anni al progredire delle esplorazioni del sistema solare.

Sia come sia, però, se si passa dalla vita biologica elementare a forme di vita dotate di una qualche forma di intelligenza le cose cambiano, e notevolmente. È abbastanza noto anche fra il grande pubblico, infatti, il cosiddetto paradosso di Fermi. La sostanza di questo ragionamento può essere tradotta nella considerazione che se l'universo, o anche solo la nostra galassia, è piena di pianeti che possono ospitare forme di vita, ed almeno su alcuni la vita ha generato esseri senzienti dotati di capacità tecnologiche, è domanda pertinente quella di chiedersi dove, quindi, questi esseri sarebbero. Se l'universo pullula di vita, visto che il nostro Sole e con esso la Terra, ha poco meno di 5 miliardi di anni rispetto ai quasi 14 dell'universo nel suo complesso, ci saranno anche civiltà più evolute ed antiche della nostra. Solo che fino ad oggi noi non ne abbiamo alcuna traccia.

Le soluzioni al paradosso sono tantissime (qui un interessante articolo divulgativo in inglese), e tutte con significati degni di essere analizzati. Ad esempio, in questo contesto si da per scontato che i viaggi interstellari siano possibili, ma se la velocità della luce fosse un limite realmente invalicabile, come per altro abbiamo ottimi motivi di pensare, potrebbe non essere il caso. E quindi, con un tocco di antropocentrismo finalistico, potremmo domandarci cosa serve allora avere un universo così grande se anche alla velocità della luce ci vorrebbero comunque anni per raggiungere anche solo le stelle più vicine (in realtà la questione non è così semplice, ed il tempo necessario per il viaggio sarebbe lunghissimo per un osservatore sul nostro pianeta, ma molto più breve per l'ipotetico astronauta, il famoso paradossi dei gemelli della relatività einsteiniana).
Alternativamente ci si potrebbe anche domandare se sia poi vero che le civiltà nascono e si evolvono migliorando sempre la loro tecnologia fino a diventare capaci dei viaggi fra le stelle. Estinzioni, stagnazioni, involuzioni, i possibili motivi perché una civiltà intelligente possa non desiderare o potere esplorare l'universo sono tantissimi, e per altro spesso sviscerati ed analizzati dagli autori di fantascienza in molte forme altamente suggestive (ad esempio la civiltà solariana dei cicli asimoviani).
Oppure ancora, potrebbe semplicemente essere il caso che non siamo molto interessanti, ed i viaggiatori dello spazio banalmente ci ignorano... altro tema caro alla fantascienza (la prima direttiva della saga di Star Trek).

Tuttavia esiste anche la banale possibilità che, semplicemente, non siamo stati ancora "trovati". L'universo è grande, e magari siamo l'analogo galattico dei nativi sud-americani che, fino all'arrivo delle caravelle spagnole, potevano benissimo pensare di essere gli unici al mondo.
Su questo tema ci sono state anche recentemente delle prese di posizione piuttosto singolari secondo le quali, in realtà, sarebbe molto meglio e forse anche necessario sperare che questo stato di cose perduri per molto tempo ancora (ultimo in ordine di tempo, Stephen Hawking). Detto in altra maniera, è realmente saggio cercare di attirare l'attenzione di civiltà extra-terresti? L'analogia con le popolazioni pre-colombiane, o anche in realtà con qualunque popolazione che abbia avuto a che fare con una visita di una potenza "superiore" per tecnologia apparirebbe qui stringente. Ogni volta che questo è accaduto, indipendentemente da razza, religione e periodo storico, per la popolazione meno evoluta il destino non è mai stato felice.
Va qui ricordato che sono in effetti ormai alcuni decenni che mandiamo segnali radio nello spazio con informazioni varie sul nostro pianeta, dove siamo, quanti siamo, come siamo fatti, ecc. L'idea, suggestiva, è quella di poter un giorno ricevere una risposta e quindi magari aprire un canale di comunicazione con un'altra civiltà. Il ben noto progetto SETI. Ma anche senza avere trasmissioni mirate, la sola esistenza delle telecomunicazioni terrestri, la radio e televisione ad esempio, implica che verso lo spazio vengono continuamente emesse trasmissioni con, potenzialmente, una quantità enorme di informazioni su di noi.

E quindi la domanda fondamentale: è saggio tutto questo? Di solito a questa obiezione che, in termini brutali sembrerebbe per la verità di una certa solidità, si danno risposte che, in buon sostanza, sono basate su un assunto primario: le eventuali popolazioni extraterrestri così evolute da viaggiare nello spazio saranno anche inevitabilmente dotate di un senso etico superiore a quello di noi terrestri. L'idea che lo sviluppo porti con se anche la crescita dei valori è un antico pregiudizio positivista, non privo di fascino. Anche qui non è difficile vedere l'influsso del pensiero comune del tempo in cui determinate idee sono state prodotte o discusse. Il concetto che equipara il progresso in ogni caso ad un miglioramento, in ogni settore, permeava tutta la società occidentale almeno fino alla fine del secolo passato. Oggi le cose sono diverse, ed insieme al crescere di movimenti in varia forma anti-scientifici, ecco che fioccano i distinguo ed i richiami ad un prudente isolamento.
Non so se da tutto questo sia completamente lecito trarre lezioni sociologiche, nel senso che se da una parte i toni di queste considerazioni sembrano tradurre in pratica un concetto generale di sfiducia e scetticismo verso il diverso in ogni forma, dall'altra magari c'è il rischio di dare eccessiva portata ad un banale esercizio intellettuale stante comunque, al momento almeno, la completa mancanza di evidenze reali di visitatori dallo spazio.

Vero, è, comunque, che l'idea di una Terra che si isola e si nasconde per precauzione, erigendo muri e frontiere in funzione di un futuro comunque distopico, non è esattamente il contesto in cui ci piacerebbe vivere e lavorare.

mercoledì 8 aprile 2015

Ballando lo SKA

Molto probabilmente la parola SKA per la maggior parte delle persone non dirà molto, o al massimo  evocherà un genere musicale per altro di notevole interesse e sviluppo.

Per gli appassionati ed i professionisti di astronomia, invece, l'acronimo SKA si avvia a diventare uno dei più importanti e comuni nei prossimi decenni. SKA sta per Square Kilometre Array, ed è, molto in soldoni, uno straordinario radiotelescopio formato da migliaia di antenne distribuite su un'area larga circa 3000 chilometri. Come è stato detto, certamente con un po' di enfasi, in questo caso non del tutto mal posta, il progetto punta a trasformare la Terra in un unico gigantesco radiotelescopio!

Immagine pittorica di alcune delle future antenne di SKA
Si tratta di un'impresa realmente titanica, con un costo stimato intorno ai 2 miliardi di Euro. E con un tempo di sviluppo completo vicino ai due decenni. È facilmente intuibile che una tale avventura scientifica e tecnologica sia possibile solo grazie ad un'ampia collaborazione internazionale. Al momento fra i paesi del consorzio abbiamo Australia, Canada, Cina, Germania, Gran Bretagna,  India, Nuova Zelanda, Sud Africa, Svezia, Paesi Bassi ed appunto Italia. E diversi altri stanno negoziando l'ingresso. 

Non è un caso che nella lista ci siano diversi paesi emergenti, evidentemente desiderosi di fare "il gran salto" ed entrare a far parte dei paesi importanti per la scienza. Le impressionanti ricadute tecnologiche che deriveranno dallo sviluppo ed utilizzo di questa strumentazione sono un diretto viatico verso la competitività industriale dei paesi che maggiormente contribuiranno alla sua costruzione. Questa fase di febbrile negoziazione ricorda in parte i primi decenni del secondo dopoguerra in Europa, dove vennero poste le basi di grandi organizzazioni scientifiche come il CERN e l'ESO.

Della scienza di SKA e con SKA avremo comunque modo di parlare ampiamente in futuro, quando il progetto entrerà nelle sue fasi operative che prevedono, nel corso degli anni, la costruzione di una serie di "pre-cursori", vale a dire versioni ridotte della struttura finale tramite i quali però si potranno cominciare ad affrontare alcuni dei temi scientifici principali.
Una cosa che invece sta accadendo proprio in questi giorni è la decisione su dove dovrà essere posto il quartier generale dell'osservatorio. Abbiamo già capito, vista la dimensione della struttura, che naturalmente SKA non sarà il tipico osservatorio al quale siamo abituati a pensare, non sarà ad esempio localizzato in un posto specifico. La maggior parte delle antenne saranno installate in un'ampia area nell'emisfero sud, fra Australia e Sud Africa. E, in un certo senso come bilanciamento, il quartier generale, dove cioè verranno prese le decisioni principali e definita la strategia di utilizzo, sarà nell'emisfero nord, e precisamente in Europa. E per ospitare questa struttura ci sono in lizza due candidati: le città di Manchester, nel Regno Unito, e Padova, in Italia. La decisione su quale sia la prescelta è ovviamente complessa in quanto richiede di valutare un'ampia classe di parametri. Dall'interesse ed attività della comunità scientifica, la facilità di accesso e la presenza di strutture ricettive adeguate, come anche, la presenza di solide garanzie finanziarie da parte dei rispettivi governi. Il quartier generale di un'impresa scientifica di questo genere, infatti, è qualcosa che va oltre un "normale" istituto scientifico. Diventerà infatti in un certo qual modo il luogo naturale dove scienziati di tutto il pianeta si incontreranno e lavoreranno. Sarà teatro di dibatti, convegni, obiettivo di studenti e ricercatori di ogni provenienza.

Ad onor del vero su questa vicenda si è innescato un piccolo giallo internazionale. Nulla che in effetti non sia la quotidianità in questioni di questa natura. Quello che accade è che in realtà la valutazione sarebbe già stata effettuata da un apposito comitato verso la fine di marzo, con una chiara preferenza verso la soluzione italiana. Tuttavia la controparte inglese ha chiesto ed ottenuto che ci sia una seconda valutazione per dare tempo ai concorrenti di riformulare le offerte. La nota rivista scientifica Nature ha dedicato alla vicenda un editoriale (qui, in inglese) non lesinando critiche esplicite alla gestione della cosa. Una lettura interessante ed istruttiva per chi ancora pensa che la scienza sia una specie di area neutra al di fuori di interessi nobili e talvolta anche meno nobili.