martedì 24 dicembre 2013

Natale... robotico!

Con quest'anno sono ormai 10 che abbiamo installato REM, "the Rapid Eye Mount telescope" a La Silla, Cile, presso uno dei due siti dell'ESO.

Quando abbiamo reso operativo questo piccolo strumento ne siamo stati, penso giustamente, orgogliosi. Uno dei primi telescopi completamente robotici con un parco strumenti complesso messo in linea in uno dei siti osservativi migliori del mondo.

Sono passati, direi volati, una decina d'anni ed aggiornamento dopo aggiornamento REM appare essere ora più in forma che mai.

E con un albero di Natale un po' inusuale, auguriamo Buon Natale a tutti quanti! 


Il parco strumenti di REM, proiettato sul fantastico cielo cileno,
offre un inusuale ma affascinate albero di Natale!

domenica 22 dicembre 2013

Scuola di qualità?

Immagino che non a molti sia noto di cosa si parli con l'acronimo PISA. Io comunque fra questi. 
Si tratta del "Program for International Student Assesment", o Programma per la valutazione internazionale dell'allievo. Si tratta di un'indagine internazionale promossa dall'OCSE, ovvero l'Organizzazione per  la Cooperazione e Sviluppo Economico, con lo scopo di valutare con una periodicità di tre anni il livello dell'istruzione per gli adolescenti dei paesi industrializzati.

Le verifiche si occupano di misurare il cosiddetto livello di alfabetizzazione letteraria, matematica e scientifica. Come per tutte le analisi statistiche i risultati vanno presi con qualche cautela, nel senso che non esiste la valutazione del tutto neutra. Vari parametri sono presi in considerazione, e certamente il peso da dare ad ognuno di questi può essere senz'altro argomento di dibattuto.

Ciò nonostante i risultati delle indagini OCSE-PISA sono degni di attenzione, e permettono di capire in maniera più oggettiva la qualità dell'istruzione nei vari paesi coinvolti per studenti nella fascia di età intorno ai 15 anni. Sulla stampa nazionale la pubblicazione dei risultati di queste valutazioni, ogni tre anni, in effetti trova qualche risalto, anche se talvolta limiti di spazio (e di atteggiamento) sembrano trasformare il tutto in un specie di resoconto calcistico. In pratica svilendo lo sforzo di sintesi che sta dietro queste valutazioni.

I risultati, come si diceva, sono in effetti interessanti. Il nostro Paese si classifica in maniera abbastanza mediocre, siamo intorno alla ventesima/trentesima posizione in dipendenza dalla categoria.  In pratica nella parte medio-bassa della classifica. Nel corso degli anni 2000 la nostra valutazione è sempre tendenzialmente peggiorata, per poi mostrare un qualche recupero nell'ultima tornata, quella del 2012.
Ai primi posti abbiamo paesi dell'estremo oriente, Giappone, Corea del Sud e Taiwan, oppure del nord-Europa, Finlandia, Paesi Bassi in testa.
Già questo ha aspetti interessanti in quanto abbiamo ai vertici sistemi educativi con una forte enfasi verso la competitività (Corea del Sud) ma anche con esplicita attenzione all'inclusione degli studenti con difficoltà (Finlandia). 
Allo stesso tempo l'entità dei finanziamenti dedicati alla scuola non è necessariamente l'unico fattore discriminante. Il contesto sociale e, soprattutto familiare, pare giocare un ruolo altrettante importante. Alcuni un po' più interessanti della media commenti su stampa sono stati forniti da Repubblica e dal Corriere della Sera nei rispettivi inserti dedicati alla scuola.

Nei risultati delle indagini contano evidentemente i valori medi ottenuti da studenti dei vari paesi, ma utile è anche controllare come si distribuiscono gli stessi a l'interno di un paese. Questa è una misura dell'omogeneità dei risultati all'interno di un paese. In Finlandia, per esempio, in pratica non c'è differenza fra la provenienza geografica degli studenti, al contrario in Italia abbiamo una situazione per certi versi paradossale. 
Premettiamo subito, a scanso di equivoci, che in seguito parleremo di nord, centro e sud in maniera relativamente schematica. È noto a tutti che le situazioni reali sono a pelle di leopardo. 
Ciò detto, come segnalato anche in alcuni editoriali, pur essendo ben noto ed evidente come il nostro Paese soffra di un elevato livello di disomogeneità economica, i risultati per gli studenti del nord, specialmente il nord-est, e quelli del sud, Sicilia in testa, sono stupefacenti. Mentre nel nord-Italia in generale gli studenti appaiono mediamente ben preparati e del tutto a livello non tanto della media europea, ma proprio dei paesi meglio organizzati, nel sud-Italia, con valide eccezioni, l'apparenza è di una situazione alla deriva, ormai fuori controllo.

Un'analisi dettagliata delle cause di questa situazione esula senz'altro dalle nostre possibilità, anche se appunto come già accennato oltre all'aspetto economico giocano questioni più sociologiche legate ai contesti sociali. 
Però il punto che vorrei sottolineare, senza particolare enfasi, ma come argomento di riflessione, è che la nostra tanto vituperata scuola pubblica probabilmente è in realtà molto meglio di quanto comunemente si pensi. Non mi riferisco qui a quelle forme di cretinismo culturale secondo le quali ciò che è "pubblico" è sinonimo di mediocrità e lassismo. E tantomeno desidero entrare nell'annoso dibattuto su come e se far convivere istruzione privata e pubblica. 

Più semplicemente mi pare che si possa osservare che in generale nel nord-Italia le scuole funzionano in maniera tutto sommato egregia. Siccome non stiamo parlando di casi isolati ma di un sistema diffuso mi verrebbe da pensare che il corpus legislativo che guida la scuola italiana, dall'inquadramento dei docenti, la definizione dei programmi, ecc. evidentemente in condizioni al contorno adeguate è perfettamente in grado di formare studenti ben preparati. Quantomeno ad un livello assolutamente comparabile con i migliori sistemi scolastici europei.  Badate bene che non intendo nemmeno entrare nel dettaglio dei vari aspetti legislativi che senza dubbio in maniera urgente richiedono un aggiornamento. O del complesso problema dell'introduzione di meccanismi valutativi e premiali per i docenti. Tutto vero, e sensato. Ma egualmente allo stato attuale delle cose il sistema è in grado di funzionare, ed anche molto bene. Il punto che mi parrebbe rilevante segnalare è che ogni intervento nei confronti della scuola non può avere senso se non tiene conto delle enormi differenze che registriamo sul territorio nazionale. Il rischio, per nulla teorico, sarebbe quello di condurre campagne politiche volte a risolvere problemi che in realtà non sono tali o che non sono quelli principali. O addirittura farsi prendere da manie distruttive in risposta al mediocre risultato d'insieme della scuola italiana in valutazioni internazionali, quando evidentemente il problema non sembra essere, almeno principalmente, nella scuola stessa ma nel contesto sociale al contorno che pare essere in grado di guidare l'efficienza di un sistema scolastico in maniera forse inaspettata.


domenica 24 novembre 2013

Mostri del cielo

Da ragazzo, credo nell'estate dopo la maturità, un secolo fa grossomodo, mi ricordo di avere letto un libro che mi piacque molto e che mi influenzò anche in seguito. Si trattava di un libro di divulgazione astronomica di Margherita Hack: "L'universo violento della radioastronomia", ancora per altro reperibile in libreria. 
Mi colpì l'aggettivo "violento". Le letture adolescenziali di astronomia che avevo gustato avevano, in genere, un approccio più classico, affascinato dai tempi lunghissimi dell'evoluzione stellare, più solenni per certi versi, ma meno vibranti. Un'astronomia di fenomeni veloci, di eventi per certi versi catastrofici, mi diede da pensare. La cosa faceva il paio con un altro libro letto sempre in quel periodo: "I mostri del cielo", di Paolo Maffei, anch'esso ancora reperibile. Oggetti esotici, inusuali, affascinanti facevano allora capolino nella mia formazione.

Non avrei mai immaginato che anni dopo, e non in seguito a scelte precise ma, in un certo senso, sull'onda degli eventi, il mio principale campo di studio in astrofisica sarebbe stato legato ad uno dei "mostri del cielo" per antonomasia: i Gamma-Ray Burst, o in italiano meglio lampi di luce gamma!

Senza dubbio i lampi di luce gamma, chiamiamoli da ora in avanti GRB per comodità, costituiscono  una delle classi di sorgenti più intriganti della moderna astrofisica. Come è abbastanza noto, la scoperta del fenomeno risale ai tardi anni '60, quando nel bel mezzo di spionaggi e controspionaggi da guerra fredda vennero messi a punti satelliti che, fra le altre cose, avevano la capacità di rivelare brevi lampi di radiazione di alta energia, lampi di luce gamma appunto. L'idea era quella di rivelare possibili esplosioni nucleari sulla superficie terrestre, e persino sulla Luna. Ma ciò che si rivelò fu ben altro... una storia un po' più completa di queste scoperte la potete leggere qui!

Comunque, a partire dalla metà degli anni '90 fino ancora ad oggi i GRB diventano argomento di importanza dominante nel panorama astrofisico. Da allora si è imparato molto, senza dubbio, per esempio conosciamo diverse classi di GRB, ne conosciamo la distanza (qui un breve commento a riguardo), abbiamo anche idee abbastanza precise di cosa generi l'impressionante liberazione di energia in tempi brevissimi che costituisce l'aspetto più estremo di questi fenomeni.

I GRB non sono eventi molto frequenti, anzi, possiamo dire che sono estremamente rari nell'universo. Il satellite Swift, il miglior "cacciatore di GRB" che abbiamo a disposizione, ne vede circa un centinaio l'anno. Detto così il numero non sembra piccolo, ed effettivamente è così. Il punto è che questi eventi sono così brillanti, sia pure per breve tempo, che in un certo senso li vediamo (quasi) tutti! Anche per i GRB, ovviamente, vale la regola generale secondo la quale più un evento è lontano mediamente è anche più debole da osservare. Ma tendenzialmente riusciamo a vederli a qualunque distanza e, anzi, fra gli oggetti più lontani mai identificati abbiamo infatti alcuni GRB.

Rimane vero però che si tratta di eventi rari, e questo ha come conseguenza che è un evento piuttosto inusuale quello di osservarne uno vicino... ora, intendiamoci, qui si parla sempre di distanze di tipo cosmologiche, quelle che gli astrofisica esprimono in termini di spostamento verso il rosso, o redshift.
Mediamente i GRB sono rivelati ad una distanza corrispondente ad un redshift di circa 2, ovvero a quando l'universo aveva solo grossomodo un quarto dell'età attuale. Ne sono stati osservati a distanze molto maggiori, redshift 8 o 9, quando l'universo aveva poche centinaia di milioni d'anni di età, ed anche a distanze minori. Però quelli osservati nel cosiddetto universo locale sembravano essere di una categoria diversa rispetto ai GRB noti come "cosmologici". Meno potenti, e probabilmente con differenze anche rispetto ai meccanismi fisici in azione.

Ma ecco che invece il 27 aprile di quest'anno il satellite Swift ha vinto una scommessa che durava dal suo lancio, avvenuto ormai 9 anni fa! Un GRB di tipo cosmologico ma a distanza corrispondente ad un redshift di circa 0.34, quando ormai l'universo aveva caratteristiche molti simili a quello attuale. Si tratta del GRB denominato GRB130427A, ovvero il primo rivelato il 27 aprile del 2013.

Non è difficile immaginare che avere a portata di mano, per modo di dire ovviamente, un GRB cosmologico ha scatenato l'attenzione di praticamente ogni osservatorio a qualunque lunghezza d'onda e dopo diversi mesi di lavoro frenetico abbiamo avuto la pubblicazione di ben 5 articoli più o meno in simultanea dedicati a questo evento. 4 sulla prestigiosa rivista Science ed uno sull'Astrophysical Journal. Una produzione poderosa certamente giustificata dall'eccezionalità dell'osservazione. Si calcola che eventi di questo genere accadano con una frequenza di circa un paio per secolo!

Questa serie di pubblicazioni che ha visto come protagonisti diversi diversi scienziati italiani, uno dei lavori è infatti a guida di Alessandro Maselli, dell'INAF / IASF di Palermo,  ha anche generato un'ampia ricaduta mediatica. Segnalo qui di seguito alcuni link per approfondire e gustare ciò che è accaduto!

lunedì 4 novembre 2013

Università e Sistema Paese

Esiste un punto su cui non c'è praticamente discussione in qualunque analisi socio-economica, di qualunque paese o contesto geo-politico si tratti. Ed è sul ruolo chiave della scuola, a tutti i livelli, come motore trainante dello sviluppo economico senza ovviamente in questo dimenticare il valore intrinseco della conoscenza.
Già in passato abbiamo parlato del  valore economico della conoscenza, in senso più generale, nell'ambito delle scienze fisiche. Tuttavia una relazione fra buona scuola e buona economia non è legato solamente ai settori più tradizionalmente vicini al mondo della produzione e della tecnologia. È un meccanismo più generale e piuttosto interdisciplinare. Buona scuola implica, o consegue, probabilmente entrambe le cose, da buone pratiche amministrative, da buona politica e buona società.

Il diagramma che segue, riportante il prodotto interno lordo (PIL) rispetto alla percentuale dello stesso spesa, genericamente, per istruzione, è esplicito. Ogni soldo speso in formazione ritorna con gli interessi in termini di competitività economica. La fonte dei dati, come riportato nella figura, è l'Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo (OCSE).

Non c'è dubbio per altro che tutti i meccanismi che rendono funzionale o meno un percorso di formazione diventino critici quando si discute dell'ultimo grado di formazione, ovvero quella universitaria. Grado certamente sempre più lontano da un'ambientazione di élite come era ancora qualche decennio fa per essere parte integrante della catena formativa.

Ma come è quindi veramente la qualità dell'offerta formativa universitaria in Italia?

Il tema non è solamente accademico, nel senso di essere parte di una discussione spesso un po' sterile sui principi primi dell'istruzione. Ha come abbiamo detto valenze economiche primarie e riguarda scelte politiche anche fondamentali, mettendo in campo diverse visioni ideologiche ed economiche.

Ad esempio, quanto sono buone veramente le università italiane? È vero che abbiamo troppe università e troppo piccole? Spendiamo troppo o troppo poco per gli studenti? I professori sono tutti parenti fra loro e non esiste alcuna richiesta di qualità?

Insomma un'ampia quantità di temi che è di importanza fondamentale che vengano discussi, e che purtroppo spesso si ha la precisa sensazione che comunque non escano mai dalla cosiddetta cerchia degli specialisti, risultando quindi sostanzialmente ininfluente nell'ambito della più ampia discussione politica nel Paese.

Ma partiamo da notizie che spesso ci sentiamo proporre dai media in varia forma. Ovvero: "le migliori università italiane sono lontanissime dalle posizioni di testa in una qualunque classificazione degli atenei dei paesi sviluppati".

La notizia è vera. Per esempio relativamente alla voce università italiane in wikipedia si vede che, tipicamente, in queste classifiche le università italiane sono presenti in posizioni di relativo rincalzo. Nel caso della classifica QS World University Ranking si scopre che in classifica ci sono, nel 2011, 21 atenei su un totale di 72 considerati in Italia fra i primi 700 nel mondo. E le migliori sono oltre la posizione 150.
Un sito spesso capace di fornire notizie e dati di grande valore per il mondo universitario e della ricerca è quello del ROARS, a cui faremo riferimento ampiamente anche in seguito. Il ROARS pubblica un'interessante tabella con i risultati per le università italiane relativi a classifiche stilate da vari enti.
In ogni caso, indipendentemente dalla classifica, grossomodo il risultato è che 25-30% degli atenei italiani sono in classifica ed in posizioni non vicine alla "vetta", anche se spesso anche lontani dalla "coda" vera e propria.

La valutazione del significato di questi risultati però, come sempre, richiede qualche ragionamento. Essenzialmente il punto è che ogni valutazione ha significato nella misura in cui i criteri di valutazione sono conformi ad un determinato obiettivo. Ad esempio, per intenderci, supponiamo di voler decidere quale è la "miglior macchina sul mercato". È evidente che potremo propendere verso un modello super-sportivo a grandi prestazioni, piuttosto che ad un altro parco di consumi, come ad una macchina grande e spaziosa o una city car. In dipendenza da quali criteri decidiamo di adottare che a loro volta devono riflettere l'obiettivo della valutazione. E, non ultimo, il costo che riteniamo di poter affrontare.
La questione delle università è della stessa natura. A quali criteri soggiace questo tipo di valutazione? La risposta è in effetti ben nota, e risiede nello stesso meccanismo per cui esistono società che si occupano della valutazione di aziende ed enti vari per suggerire se siano convenienti o meno come obiettivo di investimento, le ben note ed in parte famigerate agenzie di rating.

Ebbene, nel nostro caso, queste classifiche vogliono rispondere ad una domanda in fondo semplice: dove converrebbe far studiare i nostri figli? In queste valutazioni quindi ci sono una grande quantità di parametri che si legano, ad esempio, alla facilità di trovare lavoro post-laurea ed a quanto verrebbe pagato, alle "facilities" per studenti come dormitori, impianti sportivi, ecc. Al numero e qualità dei docenti, e così via. È una valutazione che guarda più che altro alle "prestazioni" piuttosto che al "costo/prestazioni". Le migliori università in questa categoria sono spesso anche le più costose.

Di fatto quindi, una volta meglio compresa la portata di queste valutazioni, appare abbastanza chiaro che il risultato delle università italiane è legato alle università stesse, e come tale non è sensato minimizzarlo, ma è anche a una valutazione del sistema Italia nel suo complesso. Mi pare che non sia molto difficile da intuire che se si ha la possibilità economica ci sono poche ragioni (tecniche) per far studiare i propri figli a Milano piuttosto che nei migliori atenei inglesi o americani. E questo in realtà anche se le università milanesi fossero quanto di meglio si potesse immaginare dal punto di vista didattico e professionale. Il fatto è che risulta difficile competere con l'impatto socio-economico del contesto in cui le migliori università di Boston o della California agiscono rispetto a scenari italiani (e non solo, ovviamente). In aggiunta il fatto che l'Italia sia una ventina d'anni che scala, al contrario, le classifiche di competitività economica ha ovviamente un evidente impatto su queste considerazioni.

Di conseguenza appare anche chiaro come la banalizzazione di queste valutazioni sulle università che spesso i media generalisti operano in termini quasi da stadio, possa essere funzionale ad un dibattito politico ormai sempre più dominato da opposti fondamentalismi, ma certamente con poco o persino nulla a che fare con la reale natura del problema.

Di argomenti di discussione invece ce sono moltissimi.
Per esempio uno dei punti che in queste classificazioni delle università appare spesso è che gli istituti più piccoli sono tendenzialmente penalizzati. Il motivo è semplice. Supponiamo di confrontare l'università X con, diciamo 1000 docenti e ricercatori, con l'ateneo Y con solamente 100 persone in quei ruoli. Ovviamente, a parità di qualità di questi professionisti, l'università X sarà in molte classifiche avvantaggiata in quanto più presente per impatto economico (numero di brevetti, spin-off aziendali...) o scientifico (numero di pubblicazioni...). Solitamente si afferma che le università siano appunto troppo piccole ed effettivamente si possono citare casi eclatanti di atenei al limite delle dimensioni operative.
Vuole dire questo che in Italia ci sono troppe università, magari troppo piccole, e quindi bisognerebbe ridurne il numero per favorire la crescita di poche grandi università?

Questa affermazione in effetti è comune, piuttosto complessa nella strategia complessiva,  è comunque anche falsa. Il grafico a fianco, tratto dal volume "Malata e denigrata: l'università italiana a confronto con l'Europa" a cura di M. Regini (Roma, Donzelli 2009), mostra come il rapporto fra offerta universitaria ed abitanti di alcuni paesi europei e Stati Uniti ci veda, al solito, in ultima posizione. Purtroppo sulla base di queste ed altre, altrettanto erronee, considerazioni è stata messa in atto una sostanziale riduzione del numero di corsi di laurea offerti dai vari atenei con risultati dubbi anche sulla possibilità di ottenere sostanziali risparmi economici.

Un altro punto che è importante nella valutazione dell'offerta formativa è senza dubbio il rapporto fra docenti ed allievi. Non c'è dubbio sul fatto che definire quale sia il rapporto ottimale, non necessariamente 1:1, è un obiettivo complesso. Però è altrettante certo che l'affollamento nelle aule e nel rapporto coi docenti di sicuro è nemico della qualità della didattica.

Il caso italiano è schematizzato nell'istogramma che segue, relativo all'anno 2010, i dati sono ancora di fonte OCSE. Appare evidente che il rapporto docenti/studenti in Italia è piuttosto sfavorevole. Aggiungiamo a questo il fatto che sono piuttosto pochi in Italia i giovani che frequentano l'università e si laureano (fonte Eurostat) e si delinea uno scenario in cui sia l'offerta universitaria che le strutture a disposizione appaiono del tutto sotto-dimensionate rispetto alle esigenze di un'economia avanzata.

Effettivamente, come abbiamo già ampiamente discusso in passato, il nostro Paese è fra i fanalini di coda anche per il numero di ricercatori, parametro che è ovviamente parzialmente legato a quello del numero dei docenti universitari.

Esempi di questo genere potrebbero continuare a lungo. La miopia della politica dedicata in questi ultimi anni all'istruzione, in particolare quella universitaria, appare del tutto inspiegabile indipendentemente dal colore politico o attitudine culturale.
Il punto chiave della questione è che il Paese spende troppo poco per l'istruzione universitaria. E vede questa spesa come, appunto, un peso e non un investimento. Ancora possiamo renderci conto dell'entità del problema con altri grafici.
Quello che segue, ammetto di un po' difficile lettura, mostra però quella che potremmo definire come spesa totale per università e ricerca universitaria per diversi paesi (anno 2009). Le fonti dei dati sono indicate in legenda. A prescindere da alcuni dettagli tecnici il risultato non richiede grande interpretazione, ed è per altro abbastanza  noto in quanto emerge da studi analoghi di diversa origine. Siamo fra i paesi che danno minore importanza all'istruzione universitaria, almeno a giudicare dagli sforzi che dedichiamo al settore.


La questione, come sempre, sta tutta nella definizione di opportune priorità. Nell'opinione pubblica è forte la convinzione che il dissesto finanziario del nostro Paese sia causato dallo sperpero di denaro pubblico da parte di politici e manager. C'è ovviamente del vero in questo, ma sarebbe anche bene che alla stessa opinione pubblica venga fornita una visione più matura della questione. Le auto blu, i super-stipendi, ecc. sono più che la causa del dissesto la conseguenza dell'applicazione di pessime pratiche amministrative che si rivelano a tutti i livelli, dalla gestione dei piccoli comuni alle grande aziende. E non solo e forse neppure principalmente nel pubblico per altro, come la vicenda infelice di tante grandi aziende italiane sparite dal mercato negli ultimi decenni sembra suggerire.
Di fatto, e fatto salvo che buone pratiche amministrative sono fondamentali ed ineludibili, i finanziamenti per l'istruzione, non solo universitaria, dovranno comunque competere con altri settori ad "alta sensibilità sociale", sanità, difesa, sicurezza, assistenza sociale, ecc. Se non si diffonde la convinzione che non basta ridurre lo stipendio dei parlamentari per portare gli investimenti in formazione ed innovazione nel nostro Paese ai livelli necessari credo che difficilmente si potrà aprire un dibattito proficuo. Un esempio chiaro della mancanza di programmazione che inevitabilmente porta a legislazioni di emergenza lo si può vedere nell'andamento del finanziamento alle università sotto forma del cosiddetto "Fondo di Finanziamento Ordinario", FFO. La fonte dei dati è il Consiglio Universitario Nazionale (CUN).
L'andamento temporale del FFO, corretto come doveroso per l'inflazione, mostra che negli anni 2000 è rimasto piuttosto stabile se non addirittura caratterizzato da un lieve aumento. Allo scoppiare della crisi dei mutui "subprime" intorno al 2008, prima avvisaglia della crisi globale che hai poi attanagliato le economie occidentali, vediamo che in seguito alla necessità di affrontare tassi di interesse sul nostro debito sempre più alti e la crescente sfiducia dei mercati il taglio dei finanziamenti universitari è stato sensibile e continuo come parte del più generale taglio della "spesa pubblica".

Una domanda allora diventa d'obbligo, e non è retorica. Il Paese sarebbe veramente pronto a considerare l'investimento in formazione come di massima priorità e quindi a rimuovere il comparto da quelli sottoposti a riduzione di spesa anche nell'emergenza finanziaria in cui ci troviamo?
La sensazione è che in realtà fino a che il problema non verrà affrontato a livello politico e di opinione pubblica senza artifici retorici e falsi miti difficilmente ci potrà essere un sostanziale cambio di rotta anche nei prossimi anni. Il richiamo al primo grafico mostrato in questo articolo, quello che mostra la relazione da PIL ed investimento in formazione, dovrebbe mostrarci senza ambiguità la strada da seguire, anche quando fosse di difficile digeribilità per un'opinione pubblica ormai in preda a derive demagogiche in tutti i settori.

sabato 29 giugno 2013

Un pensiero alla morte di Margherita Hack

Margherita Hack è stata certamente protagonista di una vita straordinaria. Scienziato di valore, impegnata nella vita intellettuale e politica del paese. 

Però mi piace ricordarla per un'impresa, un'autentica avventura editoriale, che l'ha vista coinvolta insieme a Corrado Lamberti nel dare vita ad una rivista di divulgazione scientifica che per qualche decennio ha costituito il punto di riferimento assoluto nel settore. Si tratta, ovviamente, de l'Astronomia. Anche oggi a distanza di anni ricordo con piacere quando da adolescente contavo i giorni per l'uscita in edicola del nuovo numero e cominciavo a leggerlo dalla fine, da una rubrica chiamata "Rampa di lancio". 

Perché l'Astronomia è stata importante? Perché in barba a tutti gli scontati stereotipi sul panorama culturale italiano, orrendo risultato della tracimazione della competizione politica nel sociale, non si era mai visto prima, e non solo in Italia a dire il vero, una rivista di settore superare i ristretti confini del pubblico di nicchia per diventare di rispettabile tiratura e modellare un'idea di nuova di divulgazione scientifica. Aperta alla cultura umanistica, ricca di spunti intellettuali, e sempre originale e creativa.

E fu anche divertente, anni dopo, quando diventai anch'io astronomo, conoscere di persona molti degli autori di articoli divulgativi che a sul tempo avevo letteralmente divorato. 

Non posso dire che l'Astronomia mi abbia influenzato nella decisione di diventare astronomo, lo avevo già deciso molto prima, ma certamente mi ha accompagnato nel crescere della convinzione e della consapevolezza. E non penso di sbagliare dicendo che questa rivista è stata la compagna di formazione di un'intera generazione di astronomi italiani.

Credo che per molti di noi, professionisti dell'astronomia, pochi riconoscimenti professionali potrebbero essere più graditi. E nel caso di Margherita Hack, ampiamente meritati.




venerdì 21 giugno 2013

La fisica rende?

Oggi parliamo di soldi. Di business. Niente romanticismo, l'uomo che guarda all'infinito, ed altro bla-bla poetico... solo vile pecunia.

Parliamo cioè di un tema che, sebbene spesso accennato e declamato, manca in molti casi di una trattazione rigorosa: la scienza, e nello specifico la fisica, che ruolo rivestono per le economie dei nostri paesi? É possibile monetizzare il valore della fisica per il PIL dei paesi europei in generale e quindi anche del nostro in particolare?

Lo spunto per questo post nasce da uno studio prodotto dalla European Physical Society (EPS, Società Europea di Fisica) con lo scopo di dare risposta a delle domande ben specifiche: 
  1. Quanto è importante la fisica per le economie dei paesi europei?
  2. Quanto è conveniente mantenere ed aumentare gli investimenti nel settore?
Lo studio è stato commissionato ad un ente indipendente ed esterno, il Centre for Economics and Business Research (Cebr) utilizzando come base dati la (preziosa, aggiungo io) raccolta, pubblicamente disponibile, di Eurostat.
Lo studio copre tutti i 27 paesi dell'Unione Europea con l'aggiunta di Norvegia e Svizzera e riguarda il quadriennio 2007-2010. Il documento completo, abbastanza corposo ed in inglese, lo potete scaricare qui.

Alcuni risultati generali sono sintetizzati nella stessa introduzione ed implicano oggettivamente considerazioni di notevole valore. In pratica si scopre che il settore ha un'importanza in relazione al numero di impiegati e quindi anche di valore associato superiore a settori considerati certamente non a torto strategici come le costruzioni o il commercio. Ed in generale anche in tempi di contrazione economica le imprese del settore appaiono più solide e meno soggette agli effetti del periodo.

Ma vediamo alcuni risultati in maggiore dettaglio con l'ausilio talvolta di grafici opportuni.

Il primo punto importante è l'ammontare del "giro d'affari", in inglese "turnover" dovuto alle aziende nel settore. Con fluttuazioni importanti dovute all'andamento dell'economia globale, il valore è fra i 3500 e 4000 miliardi di euro annui. Una cifra oggettivamente di grande rilievo.
Questo giro d'affari si divide fra vari paesi europei con la Germania che anche in questo si conferma la principale economia continentale. 


Per comprendere meglio la portata di questo giro d'affari possiamo vedere la redditività di queste attività per unità di personale impiegato. Se volete, in maniera un po' semplificata, quanto produce ogni impiegato in questo settore confrontato con altri settore economicamente importanti, come il manifatturiero, le costruzioni ed il commercio al dettaglio. Di fatto, mediando negli anni dell'analisi, ogni impiegato produce quasi 250000€/annui, simile al settore manifatturiero e molto superiore agli altri.

Anche dal punto di vista del numero di impiegati sul totale il numero è rispettabile. Si tratta fra i paesi considerati nell'analisi di circa 15-16 milioni di persone, corrispondenti al 13,2-13,3% della forza lavoro totale. E' interessante anche vedere come questa percentuale varia nei vari paesi.
Svizzera, Germania, Repubblica Ceca e paesi Scandinavi appaiono avere le percentuali più rilevanti mentre Portogallo ed Austria sembrano invece occupare le posizioni più basse in termini di percentuali di occupati.

Per valutare con maggiore precisione il contributo economico di questo settore industriale si può misurare il cosiddetto "valore aggiunto", vale a dire la creazione di ricchezza una volta che le spese (materiali, ecc.) sono sottratte dal computo.
Per le industrie del settore si parla di circa 1200 miliardi di euro/annui corrispondenti a più di 80000 €/annui per impiegato, molto più degli altri settori considerati e segno chiaro di come l'industria di alta tecnologia sia caratterizzata da un'elevata redditività.

E' possibile analizzare gli stessi dati divisi per paese, come nella figura qui di seguito:
Come si vede la Norvegia svetta, risultato è dovuto all'elevatissima redditività di industrie legate all'estrazione di petrolio e gas. L'Italia è un po' sotto la media europea, e quindi purtroppo abbastanza lontana dai paesi più competitivi nell'area.

Il documento originale è un'autentica miniera di informazioni una volta che sia analizzato in dettaglio, i pochi esempi qui riportati sono tuttavia già in grado di indicare chiaramente come aziende che necessitano di conoscenze e tecnologia che genericamente possiamo associare alla fisica sono un asse portante dell'economia europea. 

In effetti, se si controlla nel documento stesso cosa si intende esattamente per aziende legate alla fisica si scopre che nella categoria ci sono settori fra loro anche molto differenti, dalle attività estrattive alla produzione di materiali "tecnici", dall'elettronica ed ottica ad ovviamente il settore aeronautico. Tutti questi settori sono accomunati dall'esigenza di avere accesso a tecnologie avanzate ma non necessariamente di assoluta avanguardia. Intendendo con questo tecnologie e conoscenze che possono essere patrimonio di buoni studi universitari e post-universitari e non solo di laboratori di ricerca sia pubblici che privati.

In questo contesto appare quindi fondamentale il ruolo giocato da un'istruzione di qualità. Laddove sono attive università di qualità la disponibilità di persona formato nei settori di necessità (insieme ovviamente agli altri requisiti naturali come pubblica amministrazione efficiente, sicurezza, ecc.) implica la floridezza di attività industriali che sono caratterizzate da elevata redditività anche al netto delle spese da sostenere e che, in aggiunta, come ben delineato nel documento commissionato dall'EPS, hanno anche la caratteristica di essere meno sensibili ai cicli economici rispetto ad altri settori egualmente strategici.

É quindi quasi superfluo concludere che una reale sinergia fra servizi pubblici, formazione e ricerca appare essere un meccanismo che pur necessitando di non piccoli investimenti risulta in grado di fornire una ricaduta positiva ampiamente oltre anche le minime aspettative.

venerdì 17 maggio 2013

Scienza e pubblicità

Ovvero i complessi rapporti che intercorrono fra la pubblicizzazione dei propri risultati, il legittimo desiderio che questi siano noti magari anche al grande pubblico, e l'esigenza di accuratezza e rigore che è tipico dell'attività scientifica.

Non è un mistero che questi rapporti siano complessi e spesso burrascosi. Nella realtà lo sono spesso da diversi punti di vista, quelli dei vari attori di questa vicenda. Per gli scienziati è difficile comunicare ed essere compresi, spesso con la precisa sensazione che la controparte dei media punti solo alla frase ad effetto con tanti saluti per l'accuratezza. E con, anche abbastanza spesso, anche il risultato di diventare oggetto di ironia dei colleghi. 
Ma anche da parte dei media la relazione con gli scienziati è spesso difficile. Si ha un po' la sensazione di avere a che fare con dei bambini viziati ed egocentrici che pensano che i tempi stretti della comunicazione mediatica così come l'esigenza di raggiungere un pubblico più ampio possibile valgano per tutti tranne che per loro.

E' in effetti anche per queste ragioni che praticamente tutti gli enti di ricerca si sono dotati di personale con competenze di tipo giornalistico e solida preparazione scientifica, sull'esempio, manco a dirlo, delle principali istituzioni scientifiche americane dove la pratica della comunicazione scientifica è una disciplina di rango universitario praticamente da sempre.

I risultati di questi cambio di attitudine sono in effetti spesso buoni. L'Istituto Nazionale di Astrofisica, per esempio pubblica periodicamente dei notiziari che contengono notizie, interviste, materiale audiovisivo, ecc. che sembrano godere dell'apprezzamento del pubblico. Ed in generale lo stesso vale anche per gli altri enti di ricerca italiani e stranieri. Sicuramente fra gli appassionati molto note sono le pagine dell'Osservatorio Europeo dell'Emisfero Sud e delle Agenzie Spaziali Italiana ed Europea.

Tuttavia non sempre, è bene dirlo, la comunicazione scientifica verso il grande pubblico rispetta quei criteri che l'attività scientifica, in quanto tale, dovrebbe implicare. Senza dubbio, per lo meno su tempi abbastanza lunghi, è difficile millantare risultati e scoperte in ambito scientifico, almeno per le scienze di base. La stessa metodologia scientifica, indipendentemente dalla qualità delle persone coinvolte, fornisce gli anticorpi con i quali la truffa o almeno il millantato credito possono essere combattuti e per lo più anticipati. Quando però si parla con il pubblico il dialogo diventa a senso unico, e per natura stessa della comunicazione specialistica chi riceve il messaggio non ha strumenti per valutarne se non la veridicità almeno magari la portata. 

Ed è così che sulla stampa generalista appaiono mirabolanti scoperte a giorni alterni. Cure per ogni genere di malattia a portata di mano, tecnologie futuristiche già in corso di sperimentazione, soluzioni a quasi ogni problema che attanaglia il nostro pianeta. Dal riscaldamento globale all'inquinamento, la fame di energia, ecc. E, ovviamente, il vero dramma di tutto questo non sta nella voglia di protagonismo di qualche scienziato o magari nella superficialità di qualche giornalista, ma nel fatto che una comunicazione scientifica non curata a dovere in determinati settori può ingenerare aspettative nel grande pubblico talvolta molto pericolose. Il dibattito sulle cure a base di cellule staminali in corso nel nostro paese, e per la verità in tutto il mondo, ne è un esempio lampante.

Ma anche lo scenario senza dubbio meno critico delle scienze di base non è esente da questo fenomeno.  Dico meno critico perché se spaccio oggi l'ennesima scoperta di un pianeta extrasolare, siamo ormai andando veloci verso il migliaio, come una rivoluzione dell'astrofisica non succede poi nulla di veramente grave per chi riceve questa notizia senza filtro. Tuttavia il fenomeno esiste. Nell'opinione pubblica rimane forte l'idea che chi si occupa di scienza sia in qualche modo abbastanza speciale, magari anche dal punto di vista etico. Piace l'immagine dello scienziato al di fuori degli interessi di bottega e dedito solo alla conoscenza. E, sebbene alcuni di questi aspetti non siano indegni di considerazione, va detto che nella realtà nessuna delle meschinità umane è sconosciuta alla comunità degli scienziati. Di ogni parte del mondo. Gelosie, carrierismi, prevaricazioni, disonestà di vario livello, ecc. Abbiamo ampia familiarità con tutto quanto anche se, anche questo è vero, come si accennava all'inizio, la metodologia scientifica in quanto tale offre in ogni settore strumenti e protocolli per tenere sotto controllo questi fenomeni.

E' insomma difficile ingannare colleghi scienziati a lungo. Ma quando si presentano risultati al grande pubblico, e magari anche a politici ed imprenditori, ovvero un pubblico non generalista ma comunque senza competenze specifiche, il rischio del vendere fumo senza arrosto esiste. Ed è forte. Se poi lo scopo della comunicazione è magari quello di impressionare gruppi di possibili finanziatori entriamo in un regime estremamente sdrucciolevole.
Il caso, di questi giorni, in cui in un comunicato stampa un gruppo di ricerca si attribuisce la paternità di una scoperta mai avvenuta prima in astrofisica, con tanto di plauso pubblico del ministro competente, richiede una profonda riflessione a tutta la comunità scientifica. Si tratta, purtroppo, diciamolo chiaramente,  di millantato credito. Non tanto per l'argomento in se, più che degno di discussione e di coinvolgere visioni non canoniche, ma per le modalità che più che ad informare sembrano indirizzate a convincere. Quando la comunicazione scientifica prende a prestito la parte più deteriore della comunicazione commerciale è un chiaro segno di degenerazione del sistema. Ed al ministro Carrozza auguriamo di scegliere i suoi consiglieri con maggiore saggezza.

venerdì 29 marzo 2013

Mappe Stellari

Devo riconoscere che le mappe hanno sempre esercitato un certo fascino su di me. Presumo come conseguenza di qualche lettura di formazione, cose tipo l'Isola del Tesoro, o chissà cos'altro. Fatto sta che, già adolescente, mi feci regalare da mio padre una delle cartine topografiche dell'Istituto Geografico Militare, il famoso IGM, che raffigurava la zona in cui vivevo allora. E ricordo con divertimento, un po' nerd, non lo nego, i tentativi di allineare la mappa con una bussola, misurare l'azimut delle varie strutture visibili per determinare la posizione. Riconoscere le colture, i sentieri nei campi, ecc. 
Si dirà che si tratta di giochi fantasiosi da adolescente sognatore. Vero. Però tutt'ora conservo sull'harddisk del computer, da qualche parte, una bella mappa galatica della Federazione dei Pianeti della saga di Star Trek dove si possono ammirare le estensioni dei territori Klingon e Romulani, oltre che, naturalmente, federali. E questa risale a molti meno anni fa'...

Ebbene, a che pro questa introduzione da provetto geografo? 

Il fatto è che anche gli astronomi più cresciuti si dilettano di cartografia. E se effettivamente l'obiettivo è spesso la nostra galassia, la Via Lattea, o addirittura la vicinanza solare, talvolta si guarda più lontano e si cerca di costruire mappe della distribuzione di galassie in porzioni quanto più ampie possibile di universo.

Uno dei risultati pià recenti, ed affascinanti, di questo fervore cartografico è stato pubblicato di recente, e si tratta dei risultati, ancora parziali a dire il vero, di una survey denominata VIPERS: ovvero VIMOS Public Extragalactic Redshift Survey. Si tratta infatti di un poderoso sforzo che ha visto un ampio team internazionale impegnato per anni, e che lo sarà ancora a lungo, per ottenere misure di spostamento verso il rosso, il redshift, per quante più galassie possibile entro determinati criteri a distanze corrispondenti a periodi in cui l'universo aveva da circa 5 a 8 miliardi di anni.

Ma andiamo per ordine. Il responsabile di questa survey è una nostra vecchia conoscenza, Luigi Guzzo, dell'INAF / Osservatorio Astronomico di Brera. E lo strumento utilizzato per queste osservazioni si chiama VIMOS, un massicio spettrografo che alimenta una delle unità che formano il Very Large Telescope, presso il Cerro Paranal in Cile. La caratteristica principale di questo strumento, in relazione a questo lavoro, è la possibilità di ottenere spettri per molti oggetti in un'unica posa, permettendo quindi di affrontare lunghi programmi osservativi in tempi ragionevoli. 
Al momento infatti, la survey VIPERS ha ottenuto risultati per circa 55000 galassie, ed il programma prevede in arrivare alla fine a circa 100000!

Lo studio dello spostamento verso il rosso di tutte queste galassie ha uno scopo principale, quello di ottenere tramite questo misure di distanza delle galassie in studio. Infatti, ricordo velocemente qui,  esiste una relazione precisa fra il redshift e la distanza in cosmologia. La conoscenza quindi della distanza e della posizione di un così gran numero di galassie permette di capire come la materia si distribuisce nell'universo. 

Le mappe che si ottengono in questo modo hanno un'apparenza non familiare, ovviamente. In realtà quello che accade è che si selezionano alcune direzioni in cielo, e lungo quelle direzioni si cerca di ottenere informazioni per tutte le galassie che siano osservabili entro le capacità della strumentazione disponibile ed in base ad altri criteri che sono legati allo scopo scientifico del progetto. In pratica avremo come dei coni, centrati sull'osservatore, verso l'universo lontano. Nell'immagine qui sotto, per esempio, vediamo la mappa basata sulle prime 55000 galassie osservate nella survey VIPERS:
La quantità di informazioni che gli astrofisici sanno ottenere da queste mappe è enorme, ma a prima vista quello che senza dubbio colpisce è che la distribuzione delle galassie, i puntini blu nella figura, non appare certamente uniforme. Si identificano varie strutture che possiamo definire come filamenti, vuoti, agglomerati, ecc. 

La scoperta di questa configurazione portò in passato anche ad ipotesi variamente fantasiose sulla struttura di grande scala dell'universo, dall'idea di una qualche regolarità, un po' come un cristallo, a invarianze di scala del tipo dei frattali.
Nella realtà la configurazione che si osserva è il frutto complesso dell'azione della gravità generata dalla materia di cui le galassie sono formate, la materia barionica, ma anche dalla materia ed energia oscura ed il tutto in uno spazio in espansione quale è il nostro universo. 

Lo scopo ultimo di questo genere di ricerche, oltre all'ottenere preziosissime informazione statistiche su centinaia di migliaia di galassie, è infatti proprio quello di essere in grado di identificare e caratterizzare alcuni dei processi che hanno portato alla formazione delle galassie nell'universo primordiale, osservando come oggi le stesse si sono raggruppate in strutture di vario tipo. 


mercoledì 6 febbraio 2013

Piccoli Omini Verdi

Siamo nell'inverno del 1967, intorno a Cambridge, Inghilterra.

Adoperando un radiotelescopio di nuova generazione un gruppo di astronomi scopre la prima pulsar, una stella di neutroni rotante, visibile da Terra grazie ad un potente e periodico impulso di onde radio. Un po' come da una nave si può vedere la luce di un faro di notte. E la pulsazione era decisamente impressionante per un oggetto astrofisico: un impulso ogni 1,3s della durata di una frazione di secondo. Insomma... un autentico "bip". Intervallato, regolare. Nulla di nemmeno lontanamente simile a quanto osservato prima di allora.

La scoperta si deve a Jocelyn Bell e Antony Hewish. La prima a quel tempo era una giovane studentessa alle prese con il suo dottorato di ricerca con Hewish come relatore. Successivamente, nel 1974, per questa scoperta fu assegnato il premo Nobel al solo Hewish provocando a tutt'oggi diverse polemiche per il mancato riconoscimento alla Bell.

Una scoperta fondamentale, comunque. Oggi conosciamo migliaia di pulsar, e in diversi casi il periodo di rotazione di questi oggetti compatti, spesso più piccoli della Terra ma con un massa comparabile a quella del Sole, è di pochi millesimi di secondo. 

Però non sono le pulsar, direttamente almeno, l'argomento di questo intervento. 

Come è facile immaginare, nel 1967, l'epoca ha una sua importanza, siamo in piena "epoca spaziale", il segnale pulsato e così "artificiale" da diversi punti di vista, se non altro confrontato con ciò che si conosceva a quel tempo dei segnali astrofisici "naturali", fu una sorpresa dirompente per i ricercatori coinvolti nella scoperta. E, sebbene a tutt'oggi non è chiarissimo a che livello, la possibilità che non si trattasse di una sorgente astrofisica ma della prima evidenza di una civiltà extraterrestre fu presa in considerazione. Si parlò, infatti, di "Little Green Men", "Piccoli Omini Verdi". Espressione senza dubbio scherzosa con la quale la Bell indicò sul tabulato cartaceo delle osservazioni (siamo nel 1967...), a mano, il segnale in questione. 
Secondo diverse testimonianze intorno ed all'interno del gruppo di ricerca protagonista della scoperta, quello guidato da Hewish appunto, nessuno prese mai veramente sul serio la possibilità che non si fosse di fronte ad un fenomeno naturale. 
Eppure un certo dibattito su come ci di dovesse comportare in caso invece di un contatto extraterrestre si aprì. Per esempio chi si doveva coinvolgere? Poteva rimanere una semplice scoperta scientifica gestita da un piccolo gruppo di scienziati? Si doveva provare una risposta? Non sarebbe addirittura stato meglio non rivelare la propria presenza per evitare il rischio di essere "colonizzati"?

Temi tutt'altro che virtuali come si può vedere nell'accurata ed affascinante ricostruzione storica che è stata pubblicata pochi giorni fa a cura di Alan Penny, astronomo presso l'Università di St. Andrews. L'articolo, accurato ma leggibile anche da non specialisti, in inglese, è disponibile a questo link

Si tratta di un'occasione unica per approfondire, ma anche per divertirsi, nel seguire tramite documenti dell'epoca e raccolte successive che cosa accadde di speciale in quel ormai non più vicinissimo inverno del '67.





venerdì 25 gennaio 2013

La complessa semplicità dell'atomo di idrogeno

"E' stato di gran lunga l'evento più incredibile che sia capitato nella mia vita. E' stato come sparare un colpo di cannone contro un foglio di carta e vedere il proiettile rimbalzare e colpirci."

Quello che parla, con un po' di enfasi, ammettiamolo, è Lord Ernest Rutheford, premio Nobel per la chimica nel 1908. Si riferisce ai risultati di un famosissimo (fra i fisici...) esperimento nel quale dei nuclei di elio, le particelle alfa, venivano fatte collidere con una sottile lamina di metallo. L'esperimento in questione mostrò che gli atomi, di cui allora non si aveva ancora conoscenza se non generica, dovevano avere una struttura abbastanza peculiare: la massa concentrata al centro, e gli elettroni diffusi intorno fino ad una distanza 10000 volte più grande.

Questo è solo uno dei passaggi chiave in quella storia assolutamente eccitante e palpitante che è lo sviluppo della fisica atomica a cavallo fra i secoli diciannovesimo e ventesimo. Vediamo in azione alcuni fra i più "bei" nomi degli anni d'oro della fisica: Thomson padre e figlio, Rutherford, Bohr, de Broglie, Einstein, Schrodinger, Heisenberg, Dirac e molti altri...

Ed il passaggio dal modello planetario di Bohr alla funzione d'onda di Schrodinger segna la transizione fra la "vecchia" e "nuova" meccanica quantistica. Non solo una nuova teoria fisica, ma tanto quanto la più o meno contemporanea teoria della relatività generale di Einstein, segna un nuovo modo di pensare e di interpretare la realtà.

Venerdì primo febbraio, alle 17:30, presso il Liceo Scientifico L. Mascheroni di Bergamo, organizzato dalla Società Italiana di Scienze Matematiche e Fisiche, Mathesis, parleremo proprio di questa affascinante avventura intellettuale.