giovedì 16 febbraio 2017

Democrazia diretta e democrazia indiretta

Quale relazione ci può essere fra un blog dedicato alla cultura e divulgazione scientifica e temi politici? 

Certamente non molto rilevanti, se di intende con “politica” lo schierarsi da una parte o dall’altra. In fondo concetti come opinione e convinzione, e tutto il corollario emotivo che sono tipici della vita politica di un paese, sono abbastanza alieni alla metodologia scientifica.
Tuttavia, le relazioni possono invece diventare strette se si esce dalla logica del quotidiano e dello schieramento e ci si propone di discutere degli “strumenti” tramite i quali si esprime la vita politica stessa di una democrazia. Esiste infatti a possibilità di affrontare questioni come, ad esempio, l’efficacia di varie possibili leggi elettorali, la configurazione istituzionale e molti altri con le metodologie tipiche dell’analisi scientifica nel sociale.

Un caso molto interessante, e con conclusioni parzialmente sorprendenti, è stato trattato abbastanza di recente da Björn Tyrefors Hinnerich and Per Pettersson-Lidbom, due economisti dell’Università di Stoccolma, che hanno pubblicato nel giornale “Econometrica” un lavoro dal titolo: “Democracy, Redistribution, and Political Participation: Evidence from Sweden 1919-1938” (Democrazia, Redistribuzione, e Politica Partecipativa: Evidenze dalla Svezia fra il 1919 ed il 1938). 

L’antefatto è legato ad una serie di importanti riforme attuate in Svezia nei primi decenni del ‘900, e fra le quale la configurazione delle istituzioni amministrative dei comuni al di sotto ed al di sopra dei 1500 abitanti (di allora, quindi non paesi piccolissimi). 
Al di sotto di questo limite le comunità dovevano essere gestite con metodologie da “democrazia diretta”. Le decisioni infatti venivano prese con assemblee pubbliche formate dai cittadini, al tempo probabilmente maschi ed adulti, ed essenzialmente si votava con alzata di mano. Invece per quelli più popolosi di questo limite si dovevano avere consigli comunali eletti ogni 4 anni con partiti e quant’altro, in maniera non dissimile da quanto abbiamo noi.

I ricercatori che hanno curato questo studio hanno quindi selezionato dei comuni un po’ più grandi ed un po’ più piccoli di questo limite, in modo da avere un campione di confronto ragionevolmente omogeneo. Ed hanno cercato di identificare se vi fossero delle differenze nelle politiche condotte in queste città.

E con qualche sorpresa, come si era anticipato, si osservò che nei comuni gestiti a democrazia diretta, rispetto agli altri, le spese che oggi definiremmo per “welfare” erano del più basse di circa il 50%. Un valore decisamente rilevante.

L’interpretare questo "dato osservativo" non è necessariamente banale. Sempre gli stessi ricercatori hanno proposto una chiave interpretativa abbastanza verosimile secondo la quale la configurazione a "democrazia diretta", pur con la sua oggettiva seduzione concettuale, tenderebbe a lasciare i singoli cittadini, oggi diremmo l’utenza diffusa, senza protezione e, di fatto, influenzabile con maggiore facilità dalle personalità più rilevanti di una comunità. Personalità che, inevitabilmente, erano spesso anche i più benestanti. Al contrario, laddove la rappresentanza era indiretta, e quindi gestita da partiti, politiche di ridistribuzione delle risorse  o comunque a vario titolo  “sociali", potevano essere portate avanti con maggiore efficacia. 

Il tutto è oggettivamente interessante, in quanto suggerisce che i meccanismi di rappresentanza diretta non siano efficaci ad ottenere il risultato che spesso viene invocato per la loro adozione. Naturalmente non è immediato estrapolare dalla realtà presa in esame ad una regola generale, anche se ho sentito citare questo lavoro per la prima volta da un dibattito svolto nel Canton Ticino, dove apparentemente lo stesso fenomeno è in azione.

Rimane invece vero, considerazione da tenere in debita importanza in periodi di discussione su leggi elettorali, che la scelta di una specifica modalità istituzionale, anche nell'ampio scenario offerto dalle moderne democrazie, non è mai realmente neutra o solamente conforme ad una astratta visione concettuale. Molto spesso le conseguenze su come una società si modifica in base alle scelte fate possono essere molto meno semplici da identificare ed immaginare di quanto comunemente pensato.

venerdì 13 gennaio 2017

Una buona scuola

La scuola, buona o meno buona che sia, è sempre stato un argomento di dibattito politico, talvolta anche veemente, Infatti, per la verità, non ricordo che sia mai stato diverso anche in passato, quando da ragazzo ogni mattina ci si trovava fra banchi e visi famigliari. Ogni riforma o proposta di riforma, è sempre stata accolta od osteggiata con toni (melo-)drammatici e, in generale, le lamentele sono sempre state più abbondanti dei plausi. Con ruoli spesso curiosamente ribaltati al cambio delle maggioranze di governo.

Rimane però vero che la scuola, al di là della contingenza politica, è il luogo principe dove i nostri giovani si formano, tecnicamente certamente, ma anche in relazione alla coscienza, civile e culturale. 

La vulgata comune, come è noto, tende a descrivere le nostre istituzioni scolastiche come decrepite e, sostanzialmente, inefficienti. Non è che i problemi manchino in effetti, tuttavia la realtà è parecchio più variegata ed è possibile proporre un’analisi un po’ meno emotiva e più distaccata della situazione reale sia per scuole primarie e secondarie che per le università. Ma basta in realtà davvero dare un’occhiata al mondo della scuola senza paraocchi per trovare delle situazioni di assoluta eccellenza, in cui cioè docenti e studenti stringono un’alleanza positiva ottenendo risultati didattici di assoluto valore. Alcuni anni fa’, ad esempio, avevo riportato un’esperienza legata alla didattica dell’astronomia che vedeva un approccio sinergico fra cultura umanistica e scientifica attraverso una lettura critica dell’Odissea.

Ora, invece, mi è capitato di conoscere un progetto, denominato “Vola l’universo”, ideato dalla Prof.ssa di Science Naturali dell’IIS Manfredi Azzarita di Roma Claudia Barucci. L’idea, senza dubbio interessante, era di sviluppare, nel corso dell’anno scolastico 2015 - 2016, un piccolo filmato amatoriale su tematiche di chimica od astronomia da parte degli studenti. Sono venuto a conoscenza di questo progetto tramite, appunto, uno di questi ragazzi, Cristian Sicorschi che mi aveva contattato casualmente su Facebook .

A dire il vero, Cristian, descrivendo le vari fasi del progetti, ha anche candidamente ammesso che lo stesso non fu mai consegnato nei tempi previsti, anche perché oggettivamente si tratta di un’impresa non banale. Ed invece, con il benestare della docente, dopo diversi mesi un filmato di una quarantina di minuti, denso di contenuti e di spunti interessanti ha finalmente visto la luce. L’impegnativo documentario è reperibile su youtube, ed ha visto insieme a Cristian operare altri due studenti: Dario Albert Bel e Stefano Mossa. Uno egli aspetti più intriganti di questo lavoro è che mentre Cristian risiede a Roma, Dario e Stefano vivono rispettivamente in Puglia ed in Sardegna. Un esempio pregevole di collaborazione nell’epoca del web. Considerando ovviamente i mezzi a disposizione, la complessità tecnica, e certamente il contesto di scuola secondaria, il risultato è senza dubbio pregevole.

Una buona scuola.



martedì 20 settembre 2016

BeppoSAX: gli italiani lo fanno meglio

In pochi casi il cambio di decade che si ebbe fra gli anni '70 ed '80 fu così significativo anche al di là del puro cambio numerico. Realmente un periodo storico, un'epoca, era al termine ed un'altra cominciava, con l'usuale carico di contraddizioni. Gli anni '80, non solo in Italia, rappresentarono la chiusura di un periodo storico che vedeva nell'esasperazione dei contrasti ideologici la sua massima caratterizzazione, e l'inizio di un periodo di ripensamento, di disimpegno, ma anche di fuoriuscita da stereotipi e tabù che nel sentire comune erano diventati insopportabili. Con una felice metafora, certamente non equidistante ideologicamente, nel passaggio dagli anni '70 agli anni '80 simbolicamente si passò dal cupo grigio degli anni di piombo al colore delle televisioni commerciali. O, con un'enfasi di segno opposto, dagli inni di battaglia del punk-rock dei Sex Pistols alle spiagge caraibiche del duetto pop per eccellenza degli Wham.

In Italia, dal punto di vista politico, gli anni '80 hanno un protagonista indiscusso: il Partito Socialista Italiano, il PSI, guidato da Bettino Craxi, segretario dal 1976 al 1993. Questo movimento politico parte, anche se spesso in aperta polemica, della complessa galassia dei movimenti di ispirazione marxista divenne invece negli anni '80 il portabandiera di una visione del mondo quantomai opposta con convinte aperture verso concetti economici liberisti e verso la cultura imprenditoriale, il cosiddetto socialismo liberale

Dal punto di vista economico gli anni '80 sono stati anni per certi versi "ruggenti" per il nostro Paese. Una politica economica fortemente espansiva, condotta dai governi a guida Craxi e formati da quello che allora si chiamava pentapartito, portò ad anni di turbinoso sviluppo economico anche se, come apparve chiaro qualche anno dopo, non disgiunti da fattori di instabilità. Il debito pubblico infatti cominciò la sua ascesa vorticosa passando da circa il 60% del PIL nei primi anni '80 al 120% del PIL dei primi anni '90. E tuttavia le aziende italiane acquisirono mercati esteri e diventarono fortemente internazionali, ed in generale il Paese si mostrava effervescente e desideroso di lasciarsi alle spalle il passato di produttore di emigranti per sentirsi, a tutti gli effetti, una potenza economica di rilievo.

È quindi in questo scenario frizzante che, nel 1981, il Piano Spaziale Nazionale, un documento tramite il quale si voleva pianificare le attività legate al settore spaziale, non solo scientifiche, del Paese, prevedeva l'ambizioso obiettivo del lancio di un satellite scientifico nazionale. Due aspetti di questo passaggio vanno debitamente enfatizzati. Prima di tutto è bene ricordare che le ambizioni italiane in campo spaziale non erano affatto velleitarie. Anche se probabilmente ignoto a molti nostri connazionali, l'Italia, nel dicembre del 1964, è stato fra i primi paesi al mondo ad avere mostrato di possedere le capacità di lancio di un satellite in orbita, dopo naturalmente Stati Uniti ed Unione Sovietica. E, anche più importante, fu in grado con le attività della piattaforma di lancio San Marco di ottenere una percentuale di successi nei lanci assolutamente rimarchevole. D'altra parte è però altrettanto opportuno ricordare che l'impegno, non solo finanziario, per la programmazione, progetto, sviluppo, lancio e gestione di un satellite è di enorme portata. Si tratta di dover definire dei protocolli di azione che, specialmente qualche decennio fa, erano molto lontani dalle tipiche modalità di azione in campo scientifico. La necessità di pianificare una programmazione a lungo termine, lo sviluppo di una missione complessa può richiedere facilmente un decennio, il dover definire una opportuna catena gerarchica e di responsabilità, ed il combinare in maniera proficua il lavoro di persone dalla provenienza professionale molto diversificata rappresentavano, e rappresentano anche oggi, una sfida formidabile per qualunque "sistema".

Al bando risposero tre progetti, due per astronomia ai raggi X ed uno per osservazioni infrarosse, e dopo una breve fase di valutazione, nel 1982, quando l'Italia vinceva il suo terzo campionato mondiale di calcio, fu scelto il progetto vincente che risultò quello denominato come Satellite per l'Astronomia X (SAX). Con un nome che, effettivamente, più minimalista di così non poteva essere e che non sembrava rendere onore alla patria del design, cominciava un'avventura che si rivelerà lunga e spinosa, ma anche coronata alla fine da un successo epocale. Come commentato con soddisfatta ironia da Enrico Costa, uno degli scienziati più coinvolti nel progetto, in un'intervista a Govert Schilling, autore del libro "Flash!: The Hunt for the Biggest Explosions of the Universe", è noto a chiunque visitasse Roma che "gli italiani non erano in grado neppure di organizzare un bus dall'aeroporto"! Ma un osservatorio orbitale di prima grandezza evidentemente sì.

Il satellite SAX in fase di integrazione
Il progetto entrò quindi nelle fasi decisive di sviluppo e con l'aggiunta di una partecipazione olandese si trovò ad avere a disposizione un insieme di strumenti scientifici per le osservazioni nella banda X di prim'ordine, e per l'epoca mai realizzato prima. Le osservazioni ai raggi X erano, e sono, uno dei settori di maggiore ed impetuoso sviluppo della moderna astrofisica, e dopo i primi lavori, pionieristici ed in parte anche visionari, del futuro premio Nobel Riccardo Giacconi, le tecnologie erano ormai mature per un grande salto di qualità. I temi oggetto di studio del satellite erano quelli classici dell'astrofisica ai raggi X del tempo, come le corone stellari ed i nuclei galattici attivi  ma anche, con un'intuizione che si rivelerà vincente, i gamma-ray burst, allora ancora lontani da diventare uno degli argomenti di ricerca più caldi degli anni '90 e successivi.
I piani di lancio prevedevano lo stesso negli anni 1986 o 1987, obiettivo ambizioso ma necessario. Mantenere una missione spaziale pronta per il lancio, anche quando le fasi di studio, sviluppo, costruzione ed integrazione risultino concluse, presenta un costo rilevante. Esistono poi tutta una serie di questioni organizzative che portano a richiedere che i tempi di lancio siano il più possibile certi, ad esempio perché una parte importante del personale tecnico coinvolto nello sviluppo di una missione poi si dedica ad altri progetti e così via.

Ma per SAX le cose andarono diversamente, come per altro accade spesso per satelliti scientifici. Il vettore per il lancio doveva essere lo Space Shuttle, croce e delizia del sistema di lancio statunitense di quegli anni. Quello che doveva essere un sistema efficiente ed economico si rivelò senza dubbio efficiente, ma tremendamente costoso e, soprattuto, non affidabile. Nel 1986 infatti abbiamo il primo dei due grandi incidenti che hanno tristemente funestato la vita operativa delle navette. Il Challenger, poco dopo il lancio, esplose provocando la perdita dei membri dell'equipaggio ed il fermo di tutte le attività di lancio per più di due anni.

SAX in preparazione per il lancio
Per SAX questo fermo ebbe ripercussioni molto pesanti, mettendo seriamente a rischio la prosecuzione del progetto e la realizzazione della missione. E non fu solo per l'aggravio di costi, importante, dovuto al ritardo. Dovendo di fatto rinunciare all'utilizzo dello Shuttle si dovette riprogettare il lancio con un vettore Atlas-Centaur cosa che non deve essere pensata come un intervento di minimo spessore. Un diverso vettore implica un diverso profilo di lancio, con necessità di nuove analisi e verifiche termiche, dinamiche e vibrazionali. E non ultimo una nuova rilevante quantità di soldi per la gestione del tutto. Ma anche ritardi che portarono, nel 1993, il ministro per l'Università e Ricerca Scientifica Umberto Colombo, nel governo presieduto da Azeglio Ciampi, nel pieno della tempesta finanziaria che aveva colpito la Lira, e certamente su sollecitazione di parte del mondo scientifico, a chiedere una valutazione indipendente sull'opportunità di continuare con il progetto allo European Science Committee della European Science Foundation. Gli anni '80 si erano decisamente conclusi. A questo comitato il progetto fu presentato da tre scienziati: Livio Scarsi, Giuseppe Cesare Perola e Luigi Piro che, evidentemente, furono molto efficaci in quanto il comitato stesso raccomandò con convinzione il suo proseguimento.

Nel frattempo, già dal 1988 in effetti, era stata creata l'Agenzia Spaziale Italiana ed anch'essa compì una revisione interna del progetto nel 1993 con egualmente la conclusione che il progetto dovesse essere ancora supportato con convinzione. E fu così che quasi 15 anni dopo la sua prima ideazione, e circa 800 miliardi di lire di costo, nel 1996, poco dopo le elezioni politiche che videro la colazione dell'Ulivo guidata da Romano Prodi vincente di misura sulla coalizione di centro-destra,  SAX fu finalmente lanciato. E, come è d'uso in questi casi, fu ribattezzato dopo il lancio in onore di Giuseppe Occhialini, uno dei padri nobili dell'astrofisica delle alte energie in Italia, BeppoSAX.

Tanto travagliata è stata la storia del progetto pre-lancio quanto coronata da successi è stata la vita operativa del satellite. Una lista delle scoperte sarebbe lunga e per altro in rete si trova facilmente molto materiale a riguardo (ad esempio qui dei brevi commenti dal sito dell'ASI). Senza dubbio la parte del leone è stata rivestita dalle scoperte legate ai gamma-ray bursts con l'osservazione nel febbraio del 1997 del cosiddetto "afterglow", un'emissione successiva al lampo di alte energie vero e proprio e prevista teoricamente ma mai, prima di allora, chiaramente identificata. Da allora in avanti, a catena, una sequenza continua di scoperte che portarono, come scrive Luigi Piro in un interessante articolo che ripercorre la storia del progetto (qui, in inglese), a più di 1500 lavori scientifici pubblicati ed un'eredità che consacrò l'astrofisica italiana come entità di prima grandezza anche nell'esclusivo settore dell'astrofisica dallo spazio.

Nell'aprile del 2003, poco dopo dell'ingresso delle truppe americane a Bagdad nell'ambito di quella che è comunemente nota come Seconda Guerra del Golfo, BeppoSAX viene fatto rientrare in atmosfera in maniera controllata sopra l'Oceano Pacifico. Si conclude così una vicenda intricata, complessa, ma anche di grande successo, che ha attraversato tutti gli anni '80 e '90 per concludersi nei primi anni del nuovo millennio. E che ha contribuito alla formazione o alla definitiva affermazione di tutta una generazione di scienziati italiani che, grazie a SAX, hanno potuto godere del privilegio non comune di avere fra le mani il migliore e più avanzato strumento scientifico di un certo periodo storico.

Un'eredità impegnativa per un Paese che però proprio pochi anni dopo la fine della missione cominciava un rovinoso processo di disimpegno verso il mondo della ricerca scientifica e dell'università al quale ancora oggi non è stato posto rimedio.

sabato 16 luglio 2016

Un radiotelescopio da miracolo economico

Un "cane a sei zampe, amico fedele dell'omo a quattro rote!", diceva Bruno Cortona, alias Vittorio Gasman, in una scena de "Il sorpasso", film del 1962 diretto da Dino Risi, e considerato, non a torto, uno dei capolavori di quel genere noto come "commedia all'italiana". La commedia tratteggiava, con toni a tratti comici ed altri amari, l'Italia del miracolo economico, ovvero quel periodo fra gli anni cinquanta e la fine dei sessanta del novecento caratterizzato da un'impetuosa crescita economica e con il nostro paese a rivestire uno dei ruoli principali.

Fu anche, naturalmente, un periodo di grande sviluppo tecnologico e culturale, con l'affacciarsi prepotentemente di nuove idee, stili di vita e riferimenti. Ed anche l'astronomia italiana si trovò a vivere un periodo di speciale fermento con l'affacciarsi sulla scena di nuovi protagonisti. Abbiamo già visto come alcune delle fasi più salienti dello sviluppo del nostro Paese siano state accompagnate, quando in qualche caso addirittura simboleggiate, dall'acquisizione di importanti strumenti scientifici per l'astronomia italiana. Ad esempio con il giovane Regno d'Italia a cercare un riconoscimento di un desiderato ruolo fra le nazioni più sviluppate dotando l'Osservatorio Astronomico di Brera di un poderoso telescopio rifrattore, o il frizzante panorama culturale della Milano del primo novecento con l'abile strategia diplomatica per ottenere un avanzato telescopio per spettroscopia sempre all'osservatorio di Brera.

Gli anni '60 del novecento vedono infatti allargarsi le capacità osservative degli astronomi, con l'avvento di tecnologie capaci di permettere osservazioni dallo spazio, nasce infatti l'astronomia X grazie in gran parte al lavoro pionieristico di Riccardo Giacconi, futuro premio Nobel per la fisica nel 2002. E grazie allo sviluppo delle tecnologie legate alle telecomunicazioni abbiamo l'avvento dell'astronomia radio che proprio in quegli anni portò all'osservazione del fondo cosmico a microonde da parte di Arno Penzias e Robert Wilson, insigniti del premio Nobel per la fisica nel 1978. 

Nasce così anche in Italia il desiderio di poter avere accesso al nuovo panorama osservativo ed il favorevole contesto storico vede avverarsi questa prospettiva con il radiotelescopio "Croce del Nord", situato a Medicina, nei pressi di Bologna. Inaugurato nel 1964, dopo poco più di un anno di costruzione, fu poi seguito intorno alla metà degli anni ottanta da un'antenna parabolica di circa 30 metri di diametro, pensata per essere parte del grande network di radiotelescopi su scala planetaria noto come Very Large Baseline Interferometer (VLBI). A Bologna nel 2014 si è infatti tenuta un'interessante iniziativa per ricordare il 50esimo anniversario della costruzione della "Croce del Nord" e nel contempo ripercorrere la sequenza di eventi che rese possibile questa rimarchevole acquisizione strumentale. 
Una magnifica immagine della "Croce del Nord" a Medicina
  
Gli aspetti interessanti di tutta la vicenda sono in effetti molti. L'autorità di governo in quegli anni era rappresentata da Aldo Moro che fu presidente del Consiglio dei Ministri per ben tre governi differenti fra la fine del 1963 ed il 1968. Prima dei governi Moro, sempre nel solo 1963, si ebbero altri due governi guidati da Amintore Fanfani e Giovanni Leone, futuro Presidente della Repubblica Italiana dal 1971. In questa inflazione di governi tuttavia il ministero della Pubblica Istruzione rimase sempre in carica a Luigi Gui, mentre invece i titolari del ministero per l'Università e la Ricerca (oggi il ministero per la pubblica istruzione e per l'università e ricerca sono accorpati in un'unica carica) furono due: Guido Corbellini e Carlo Arnaudi. Una girandola di nomi ed incarichi che in parte segnala come il panorama economico stesse cominciando a cambiare con le prime avvisaglie del rallentamento della crescita economica che poi si ebbe in maniera plateale nel 1973 allo scoppio della crisi energetica e conseguente inizio di un diverso ciclo economico.  E per quelli della mia generazione il persino gradevole ricordo delle domeniche con circolazione a targhe alterne!

Tuttavia il reperimento dei finanziamenti l'organizzazione e svolgimento del progetto con annesse le necessità di rapportarsi con le autorità politiche furono solo una parte dei problemi che si dovettero affrontare. In ogni caso lo scenario istituzionale e politico era comunque complessivamente favorevole con disponibilità di risorse ed attitudine verso l'investimento in innovazione. Diversa invece, almeno secondo le testimonianze di coloro che fin dall'inizio furono coinvolti nel progetto, era l'attitudine all'impresa di una parte almeno dell'astronomia italiana. Negli anni '60 gli astronomi italiani potevano essere parte di tre entità distinte. Da una parte il mondo universitario, quindi gli osservatori astronomici ed infine i laboratori del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Le ragioni di queste diverse strutturazioni erano per lo più storiche, ma rispecchiavano o talvolta inducevano anche differenze di tipo culturale. Così, mentre il mondo universitario rappresentava in un certo qual modo il punto di unione, ed in parte di eccellenza,  gli osservatori ed i laboratori del CNR, in quel periodo, rappresentavano due mondi parzialmente in conflitto. Schematizzando la questione, e non per questo trascurando la naturale complessità nascosta in ogni classificazione, gli osservatori con la già allora pacchiana istituzione dei direttori nominati a vita rappresentavano un po' la tradizione, mentre i laboratori del CNR rivestivano il ruolo degli innovatori, erano infatti i luoghi in cui nuove tecnologie (ed anche modalità gestionali) venivano sperimentate e messe in atto. Di fatto, quindi, l'avvento di questa ondata di nuovi astronomi che sviluppavano strumentazioni e contesti di ricerca non più negli ambiti tradizionali dagli osservatori storici generò resistenze e contrasti. Ma anche un fiume di nuove idee e di innovazione che misero le basi per la tutt'ora per certi versi prodigiosa qualità della ricerca astrofisica italiana.

Lasciando da parte per approfondimenti in altre sedi le questioni storico-sociologiche, in un tempo singolarmente breve il grande radiotelescopio di Medicina fu ultimato e cominciò ad operare. Si tratta di un cosiddetto strumento di transito, ovvero le sorgenti entrano nel campo di vista del telescopio quando sono al meridiano per effetto della rotazione terrestre. Configurazione questa non inusuale nelle grandi installazioni per radioastronomia. 

Ma cosa si osserva in definitiva con un radiotelescopio? Senza alcuna pretesa di completezza, ed anzi con qualche semplificazione decisamente un po' rude, in generale potremmo dire che i telescopi ottici sono sensibili alle radiazioni emesse dai cosiddetti fenomeni termici, ad esempio la luce emessa dalla fotosfera delle stelle o comunque da gas ad alta temperatura. Alle lunghezze d'onda radio si studiano invece spesso fenomeni non-termici, ovvero quei fenomeni fisici dove l'emissione di fotoni avviene ad esempio per effetto di accelerazione di particelle con presenza di campi magnetici. Fenomeni completamente differenti, il cui studio ha enormemente ampliato la nostra conoscenza dell'Universo. 

E fu così quindi che oltre all'evoluzione stellare, sempre comunque uno dei più proficui campi di studio astrofisici, vediamo entrare nel lessico quotidiano dei nostri istituti di ricerca oggetti e fenomeni come lo studio delle radiogalassie, dei nuclei galattici attivi, delle pulsar e del gas interstellare. Contribuendo in maniera determinante a far evolvere l'astronomia italiana da una realtà senza dubbio gloriosa, ma comunque abbastanza di nicchia, ad una realtà di grande impatto internazionale per costituire, letteralmente, un altro meno conosciuto ma non meno prezioso, miracolo italiano.


venerdì 27 maggio 2016

Fumetti di scienza

Non so voi, ma da bimbo ed anche più cresciuto ho letto moltissimi fumetti. Di ogni genere. Dall'onnipresente Topolino  alle storie del Corriere dei Piccoli  piuttosto che Zagor (lo spirito con la scure!), e qualche volta da grandicello Nathan Never e Martin Mystére  Avendo avuto una numerosa colonia di cugini più grandi avevo fornitori di prim'ordine...

Da cresciuto i fumetti li ho visti solo occasionalmente, magari appunto qualche numero della (magnifica) produzione della Sergio Bonelli Editore, appunto Nathan Never ed altri. Per altro è abbastanza evidente come il linguaggio dei fumetti si sia evoluto ultimamente con diversi prodotti oggettivamente di pregio ed interessanti. 

Non è però dei fumetti in generale che desidero parlare, ci sono molti e ben più qualificati esperti nel settore, ma più limitatamente della relazione fra fumetti e scienza ma da un punto di vista del tutto parziale e personale. Accade infatti ogni tanto che in qualche fumetto si trattino temi scientifici, in gran parte dei casi in maniera del tutto fantasiosa o giocosa, e va benissimo, sia chiaro, ma occasionalmente invece abbiamo qualche riferimento più preciso. E qualche fumetto mi è rimasto in mente, magari per quel sottile gioco psicologico per cui qualcosa di poco rilevante in assoluto ti colpisce in determinato momenti per motivazioni che non sono mai veramente razionali. 

A dire il vero il primo esempio che mi viene in mente è preso dalla Settimana Enigmistica che, come recita il sottotitolo della rivista, dal 1932 è un passatempo sano ed economico. Alcuni anni fa mi ero imbattuto infatti in una curiosa vignetta per la serie del famigerato Cavalier Busillis che, come recita anche in questo caso la didascalia, "la sa lunga"...


Per uno che lavora presso la sede meratese dell'INAF / Osservatorio Astronomico di Brera, fa ovviamente un certo effetto scoprire che nella realtà i nostri più preziosi dati scientifici provengono da un traffico sottobosco mai dichiarato! In realtà mi sono sempre chiesto chi fosse l'autore di questa vignetta in quanto, usando l'espressione errata di "osservatorio di Merate", mi immagino possa trattarsi se non di un concittadino di qualcuno che vive non molto lontano.

Invece, non proprio di scienza, ma del fascino del cielo stellato senza dubbio si tratta, non posso certo esimersi dal citare il povero Charlie Brown, la vittima delle vittime del mondo del fumetto, quello che tutti nel proprio io una volta o l'altra hanno sentito vicino. La sorella maggiore di LinusLucy, ammettiamolo, è proprio irritante!

 

Ed invece molto più rispettoso, quasi professionale direi, è la citazione dei lampi di luce gamma, o gamma-ray burst, e delle stelle di Wolf-Rayet  da parte di Nathan Never. L'equipaggio di questa nave spaziale appare molto più professionale e convincente! Anche se questa faccenda di avere creato "un sole" è in effetti un pochino grossa...

 

Ma l'elenco della scienza o degli scienziati nei fumetti potrebbe essere potenzialmente lungo. Volendo si potrebbe citare l'inclusione di Margherita Hack come ospite nelle avventure della Pimpa, e magari ai frequenti "scienziati" con i loro telescopi o laboratori che immancabilmente assomigliano ad Albert Einstein, con tanto di baffetti e capelli bianchi arruffati.

Ed invece vado a concludere con una scoperta recentissima, con un collega astrofisico, musicista, e chissà quante altre cose, che ha cercato di utilizzare il suo indubbio talento di disegnatore di fumetti al servizio della divulgazione scientifica. Si tratta di Angelo Adamo, al momento dottorando ricerca presso l'Universita dell'Insubria, curatore di un notevole blog nel quale, oltre ad una miniera di informazioni e curiosità sulle sue poliedriche attività, troviamo anche una serie di vignette di argomento scientifico e di taglio divulgativo. Ce ne sono per tutti i gusti, quelle dedicate a spiegare cosa è un'eclisse di Sole, ad esempio, sono geniali. A me hanno colpito in maniera particolare inoltre quelle dedicate alla missione Euclid ed a come si è cercato di spiegare il concetto di oscillazioni barionico-acustiche, più note con l'abbreviazione "BAO" (da baryon-acoustic oscillations). 

      

La suggestione "bonelliana" del disegno (si può dire?) è evidente, e l'insieme mi pare di grande efficacia. Senza dubbio un mezzo divulgativo da esplorare con attenzione per il futuro.


Addendum!

L'onnipresente Luca Perri mi ha fatto notare l'esistenza di una notevole iniziativa della CNR Edizioni denominata Comics&Science, dedicata al rapporto fra scienza ed intrattenimento. Ringrazio allora Luca per la segnalazione.



martedì 3 maggio 2016

In conto danni di guerra...

"I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza". 

Si tratta di un passo del celeberrimo "Bollettino della Vittoria", emesso dal comandante supremo del regio esercito, Armando Diaz, il 4 novembre del 1918 all'indomani della vittoria nella Prima Guerra Mondiale. Un'immane macello, la prima guerra tecnologica dell'umanità è stato scritto, che di fatto concluse uno dei periodi di maggiore crescita economica del nostro Paese. Dopo la guerra, in Italia come in gran parte dei paesi belligeranti, la riconversione dei soldati e del Paese all'economia di pace non fu senza difficoltà. La guerra, di fatto, costituì da spartiacque fra un mondo del passato ed un mondo nuovo, senz'altro tutto da costruire ma che proprio per questo non poteva non subire il fascino di nuove idee politiche e sociali. Già nel 1917 in Russia si ebbe la rivoluzione d'ottobre, ed in Italia cinque anni dopo, nel 1922, con la marcia su Roma, abbiamo la rivoluzione fascista, ed in diversi altri paesi europei analoghe iniziative erano in preparazione, con alterne vicende, negli anni successivi.




Ma quale è il motivo di questo breve excursus storico in un blog di cultura scientifica? Il fatto è che, accanto alla Storia, con la maiuscola, scorre anche la storia, con la minuscola, della scienza in Italia, ed in particolare dell'astronomia. Ho scritto con la minuscola, anche se potremmo discutere su questo, ma comunque la vita degli istituti scientifici e degli scienziati italiani non è mai. ovviamente, slegata dal contesto sociale e politico. Al contrario proprio nelle vicende delle nostre università ed osservatori possiamo spesso vedere riflessi gli eventi importanti del Paese nel suo complesso. Lo abbiamo visto in maniera molto chiara nella suggestiva vicenda del "telescopio di Schiaparelli" che al di là del per altro notevole valore scientifico assurse ad un significato simbolico nell'Italia post-unitaria che cercava una propria identità.

E così invece siamo ora negli anni '20 del secolo scorso, circa una cinquantina d'anni dopo le vicende di cui abbiamo parlato nelle puntate precedenti del blog, e l'astronomia, insieme al mondo, è molto cambiata. Il telescopio di Schiaparelli era pensato per l'osservazione dei pianeti del sistema solare, il tema più caldo diremmo oggi, della ricerca di quegli anni. Gli astronomi poi traducevano in disegni le loro osservazioni. Dalla fine dell'800 ai primi anni del dopoguerra succedono moltissime cose importanti: abbiamo la formalizzazione completa dell'elettromagnetismo, la pubblicazione delle teorie della relatività ristretta e generale, e  naturalmente la meccanica quantistica. Un'autentica rivoluzione, anche in questo campo, che  gradualmente cambia completamente la nostra visione del mondo in un periodo che, non a caso, è stato definito l'epoca d'oro della fisica moderna. E l'astronomia si stava anch'essa trasformando, diventando sempre di più "astrofisica", con la capacità cioè di indagare più profondamente nella natura degli astri che si osservavano, cominciando a conoscerne le proprietà fisiche e compiendo misure sempre più specifiche. Ed in questo scenario cambiano anche le necessità osservative. Non più telescopi con grandi capacità di ingrandimento per oggetti di cui vedere i dettagli più minuti, ma telescopi capaci di raccogliere quanta più luce possibile per permettere di compiere studi spettroscopici. É la spettroscopia che infatti caratterizza questi anni aprendo una catena di scoperte rivoluzionarie anche per l'astronomia. 
Gli astronomi italiani si trovano quindi anch'essi nella necessità di aggiornare il parco strumentale a loro disposizione e diversi tentativi di ottenere finanziamenti per un telescopio di almeno un metro di diametro, per l'epoca un grande telescopio, diedero però sempre esito negativo. E sebbene il contesto italiano fosse positivo, con il fiorire di molti talenti in ogni settore sella fisica, non sembrava che l'esigenza di un grande telescopio con strumentazione adeguata potesse trovare grande accoglienza.

Nel frattempo nell'area milanese le attenzioni erano dedicate a trovare una nuova ed adeguata sede osservativa. A Milano, come in tutte le principali città europee, lo sviluppo industriale e la diffusione capillare dell'illuminazione pubblica avevano reso gli osservatori cittadini sempre meno utilizzabili. Le necessità da soddisfare erano però abbastanza contraddittorie fra loro. Si voleva un sito facile da raggiungere e però allo stesso tempo caratterizzato da cieli bui e quindi lontani dalle grandi città. Qualche compromesso fu necessario, e ad una trentina di chilometri da Milano venne identificata una struttura su una collina poco fuori l'abitato di Merate, in località San Rocco, dove negli anni 1923-1924, l'allora direttore dell'Osservatorio Astronomico di Brera, Emilio Bianchi, organizzò i lavori per la nuova struttura. In una nota dello stesso, datata una ventina d'anni dopo, Bianchi scrisse"È così che sorse la specola di Merate, dedicata quasi esclusivamente a ricerche di astrofisica, mentre la centrale di Brera, unitamente alle sue funzioni di Istituto pubblico, ha continuato la sua attività in osservazioni di astronomia classica".
Tornando però ai primi anni '20, Bianchi aveva comunque pensato di sondare il mercato, come diremmo oggi, per un telescopio di almeno un metro di diametro in grado di aprire la possibilità di compiere spettroscopia ad alto livello ed allo stesso tempo attrezzare al meglio la nuova sede osservativa. I preventivi ottenuti dalla Zeiss, già allora azienda leader del settore, come accennato in precedenza erano però ben al di sopra delle disponibilità finanziarie possibili ed anche sperabili. Ma è qui che invece ci riallacciamo all'inizio di questo articolo, con l'accenno alla vittoria nella Prima Guerra Mondiale.

É in questo scenario infatti che, con i buoni auspici di un personaggio decisamente notevole di quegli anni, il senatore Luigi Mangiagalli, medico, sindaco di Milano, fra i fondatori dell'Istituto Tumori milanese e poi anche rettore dell'Università degli Studi, che nasce l'idea di ottenere un telescopio estremamente avanzato dalla Zeiss come parte del debito di riparazione della Germania  verso l'Italia. Luigi Mangiagalli appare realmente essere uno degli esempi migliori di quella generazione di intellettuali con forte carica progressista che hanno arricchito il panorama milanese nei primi decenni del '900. 
Il Sen. Luigi Mangiagalli
Emilio Bianchi, apriamo una breve parentesi, era sicuramente uomo di ingegno e capacità organizzative. Plausibilmente fascista convinto sin dalla prima ora, non mancò mai di ringraziare pubblicamente il governo Mussolini per il supporto ottenuto per le acquisizioni necessarie per l'attrezzamento della nuova stazione osservativa.  Al tempo della costituzione della sede meratese il Ministro per la Pubblica Istruzione era per altro una persona di prim'ordine: il filosofo Giovanni Gentile. Su Bianchi, purtroppo, aleggiano in realtà anche ombre poco lusinghiere per il suo contributo, ben oltre le "necessità" del tragico momento storico, nell'identificare scienziati con parentele ebraiche al momento dell'approvazione ed applicazioni delle leggi razziali, verso la fine degli anni '30. É un'altra storia, certamente, ma per quanto spiacevole e per certi versi imbarazzante non può essere elusa. Il giornale della Società Astronomica Italiana ha pubblicato una serie di lavori su questo tema non molto tempo fa.

Dopo la fine della guerra le potenze vincitrici, come sempre infatti, si occuparono quindi di ridefinire gli assetti istituzionali del dopo-guerra e, come è ben noto, l'atteggiamento più che di ricostruzione fu fortemente punitivo verso le potenze sconfitte alle quali furono imposti una serie di trattari estremamente onerosi e, per certi versi, umilianti. La Germania nello specifico fu considerata come la principale artefice del conflitto e nel trattato di Versailles, siglato nel giugno del 1919, dovette subite notevoli perdite territoriali e la condanna al pagamento di ingenti riparazioni per "generici danni di guerra". Il rappresentante plenipotenziario per l'Italia in quel frangente fu il presidente del Consiglio dei Ministri Vittorio Emanuele Orlando.

Di fatto, ottenuto l'avallo delle autorità politiche, l'operazione poté procedere e, pur con qualche ritardo, nel luglio 1926 il telescopio arrivò a Merate dove cominciarono i lavori di montaggio sotto la direzione di tecnici dell'azienda tedesca. Si trattava di un telescopio da poco più di un metro di diametro, di concezione e struttura avanzata, e che all'epoca fu uno dei più grandi telescopi europei e per diversi anni il più grande in Italia. Un telescopio che aprì agli astronomi milanesi ed italiani l'accesso a studi spettroscopici moderni per diversi decenni.  

Il telescopio Zeiss in una immagine d'epoca
Il telescopio Zeiss fa per altro ancora maestosa mostra di se a Merate dove è mantenuto in ordine e funzionante anche se, inevitabilmente, non ha più un ruolo specifico nelle ricerche svolte. É spesso utilizzato nelle visite con il pubblico, e con il suo "look" anni '50, come molti visitatori hanno avuto occasione di commentare, ricorda  la forma del "telescopio" nell'immaginario collettivo a differenza magari di strumenti di concezione più  moderna.
Lo Zeiss, come viene brevemente chiamato, ovviamente rispecchia la tecnologia dell'epoca in cui è stato costruito, ed anche dove capita di guidare uno strumento scientifico con uno smartphone, è sempre divertente e suggestivo puntare con precisione questo eroico telescopio attraverso leve, manubri, noni e cercatori. Un tocco di vintage  astronomico nel moderno mondo dei big-data.

lunedì 11 gennaio 2016

A Milano per questo telescopio non c'è posto...

Accade abbastanza spesso che nella storia delle cose umane "oggetti" diventati con il tempo privi di interesse pratico, se non quasi un peso di cui liberarsi, dopo qualche decennio possano diventare invece parte di un patrimonio storico da preservare e valorizzare. Gli strumenti scientifici non fanno eccezione, anche se non sempre sono sentiti dalla pubblica opinione come parte di un eredità culturale, quantomeno al di fuori degli ambiti più o meno ristretti dei laboratori e dei musei.

Ci stiamo riferendo, qui, al Telescopio Mertz alla cui vicenda storica, quasi un'epopea, abbiamo dedicato la puntata precedente di questo blog. A tutti gli effetti questo telescopio, sia come vero e proprio strumento avanzato di ricerca scientifica, sia per ciò che ha rappresentato per l'Italia di quegli anni, assume un ruolo di testimone prezioso di un'epoca. Eravamo rimasti alla fine della vita operativa di questo strumento che, grossomodo negli anni '60 del secolo scorso finiva, diviso nelle sue varie componenti non immediatamente riutilizzabili, imballato in casse conservate nei locali dell'Osservatorio Astronomico di Brera. Fine comune ed in fondo comprensibile di uno strumento scientifico quando il progresso tecnologico lo rende obsoleto.

Tuttavia, l'idea di poter rimettere a disposizione non tanto degli scienziati, ma quanto del grande pubblico, quello che è stato un autentico gioiello dell'astronomia milanese ed italiana in realtà è sempre stata presente fra gli astronomi di Brera. Si dovette però aspettare una cinquantina d'anni affinché i tempi divenissero maturi per iniziare un'opera di restauro, quando cioè i vari fattori necessari si combinarono in maniera opportuna.

Il recuperare uno strumento scientifico, le cui componenti, quelle che ancora esistevano almeno, erano spesso in condizioni di precaria conservazione non è infatti un intervento facile e richiede competenze specialistiche e fondi per coprire le inevitabili spese. E le competenze furono trovate in realtà a poca distanza, sia fisica che "relazionale" dalla sede storica dell'Osservatorio nel palazzo di Brera.
Alcune delle fasi iniziali del restauro
A Milano, infatti, esiste un'associazione, per molti aspetti straordinaria ed allo stesso semi-sconosciuta, che si occupa del recupero di strumenti scientifici antichi: la Associazione per il Restauro degli Antichi Strumenti Scientifici (ARASS). Si tratta di un'associazione che agisce su base in gran parte (anche se non solo) volontaria e che vede il contributo di persone di varia competenza, ingegneria, elettronica, meccanica, ebanisteria, ecc. e che da diversi anni si occupa di rimettere "a nuovo" il patrimonio strumentale di cui, tanto per cambiare, il nostro paese è estremamente ricco. Non mi dilungo ulteriormente nel descrivere le molteplici attività, passate e presenti, di ARASS, il sito dell'associazione è una buona fonte di informazioni ed in questo video uno di tecnici di ARASS, Nello Paolucci, descrive in breve le attività dell'associazione:


Quello che comunque a noi preme qui è che ARASS pochi anni fa prese in carico il restauro del glorioso telescopio. Il secondo tassello, quello dei fondi per il restauro stesso, vide invece soluzione quando l'On. Lino Duilio, a suo tempo Presidente della V Commissione Bilancio della Camera, si interessò alla vicenda ottenendo lo stanziamento di un finanziamento di circa 80.000€ nell'ambito più generale dei fondi a disposizione per il recupero del patrimonio artistico e culturale locale. 

Il processo complessivo di restauro meriterebbe in effetti una descrizione approfondita, diversi infatti sono stati i problemi che i tecnici di ARASS si sono trovati ad affrontare: da reperire disegni originali per ricostruire eventuali parti mancanti, a studiare soluzioni che permettessero di ridare allo strumento una struttura stabile ed allo stesso tempo documentare con accuratezza ogni passaggio. Un processo alquanto delicato in diverse fasi ma che è ormai, proprio di recente, arrivato alla sua felice conclusione. Il telescopio, decisamente maestoso nella sua completezza, è ormai pronto per essere portato in una sede espositiva adeguata e, possibilmente, valorizzato in un contesto nel quale sia possibile informare il visitatore sulle vicende storiche di questo strumento.
Il sottoscritto fra gli On. Bianco e Duilio
nei laboratori dell'ARASS
Ed è qui, purtroppo, che la vicenda prende una piega sostanzialmente inaspettata a causa di una questione complessa che non riguarda più il restauro o la storia del telescopio stesso, o i temi scientifici, ma che invece coinvolge il contesto culturale della città di Milano e le sue autorità politiche e personalità culturali.


Come si era accennato, il telescopio verso gli anni '30 del secolo scorso fu trasportato a Merate, dove abbiamo una delle due sedi dell'Osservatorio Astronomico di Brera, e lì rimase operativo fino gli anni '60. Oggigiorno la cupola originaria in cui era installato è occupata da um altro telescopio, di concezione più moderna, il telescopio Ruths, che fu progettato e costruito come dimostratore tecnologico di un'innovativa, per i tempi, tecnologia per costruzione di specchi per uso astronomico. Questo di fatto però implica che non sarebbe possibile, anche assumendo che avesse significato, rimettere il telescopio di Schiaparelli nella sua struttura meratese. 

In realtà fin dall'inizio dell'operazione ciò a cui si era pensato era di trovare una collocazione degna dello strumento pensando al tutto in una moderna logica espositiva. Una collocazione che valorizzasse lo strumento ed il suo significato ad esempio per la città di Milano e la sua storia industriale e culturale. Le possibilità potrebbero essere molte, tutte cariche di importanti enfasi espositive. Da, ad esempio, riportarlo a Milano presso la sede storica dell'Osservatorio nel Palazzo di Brera, ad altre collocazioni in centro città fra cui, forse, giudizio dello scrivente, la più significativa di tutte: ovvero il Museo della Scienza e Tecnica di Milano. Il magnifico museo milanese, per altro, già ospita significative testimonianze scientifiche ed industriali legate alla città di Milano. Si era anche pensato, ad un certo punto, ad una possibile valorizzazione, in questa caso naturalmente temporanea, legata all'Expo milanese da pochi mesi conclusa.



Nessuna di queste soluzioni, più o meno fattibili tecnicamente, è naturalmente a costo zero anche se si tratta, come per altro per il restauro, di cifre spesso oggettivamente modeste. Ma quello che non ci si aspettava, quantomeno fra coloro che hanno lavorato per rendere l'impresa possibile è stato il registrare una sostanziale indifferenza delle istituzioni milanesi alla cosa.



Qui non è che si voglia fare di tutta la proverbiale erba un fascio, e tantomeno unirsi all'improbabile coro dei critici della casta, nelle sue variegate forme. Non è questo il caso. E tantomeno disconoscere che si tratta di una questione non banale. È però vero che, a parte generiche attestazioni di interesse verso la vicenda, la sensazione è che realmente lo stesso interesse sia scarso, magari anche solo perché in buona fede non si è compreso di quanto importante e significativo questo strumento sia stato per la città. Certo che una classe dirigente, o alcune componenti della stessa, che disconosco il valore della memoria collettiva offre il fianco a diverse perplessità.

Del problema se ne è parlato in diverse occasioni ed in diverse sedi. Dalle pagine del Corriere della Sera, ad esempio, Giovanni Caprara, noto giornalista scientifico, non ha mancato di raccontare questa vicenda per certi versi senza dubbio incresciosa (qui l'articolo). Ed in più occasioni l'Osservatorio non ha mancato di sollecitare direttamente o indirettamente l'interesse delle istituzioni anche sollecitando, e spesso ottenendo, l'interesse dei media, come nell'occasione della presentazione pubblica del completamento del restauro da parte dell'allora Direttore Giovanni Pareschi:




Evento commentato anche da Severino Colombo ancora sulle pagine del Corriere della Sera:


L'articolo originale è reperibile qui.

Tuttavia, a tutt'oggi, una soluzione per la collocazione definitiva e di valore espositivo dello strumento non si vede. Non rimane che continuare nei limiti delle nostre possibilità a sensibilizzare l'opinione pubblica e le autorità competenti.