sabato 8 marzo 2014

Mimose astronomiche

Oggi, 8 marzo 2014, è la festa della donna!
La luna piena e delle mimose!

Lasciamo un attimo da parte tutte le, per altro non prive di interesse, discussioni sul significato di questa ricorrenza. Ma utilizziamola come veicolo per introdurre un tema ampiamente dibattuto ma sempre di interesse: la presenza femminile nelle scienze in generale e l'astronomia in particolare.

Qualche tempo fa due colleghi dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Maria Francesca Matteucci e Raffaele Gratton hanno pubblicato uno studio decisamente interessante (qui, in inglese) e dai risultati per certi versi inattesi. La presenza femminile nelle scienze è ancora ridotta, ma la situazione è decisamente migliore, in particolare in astronomia, per alcuni paesi tra cui l'Italia. Abituati a fare i conti quotidianamente con le mancanze del nostro Paese non si può dire che la notizia non colpisca. Un sunto dello studio con vari commenti ed interessanti tabelle e grafici lo si può trovare riportato da Media INAF, il prezioso periodico web dell'INAF di informazione e divulgazione sulle attività dell'ente. La peculiarità italiana è ancora più evidente se si considera che gli altri paesi che godono del privilegio di avere una nutrita presenza femminile negli ambienti accademici sono, mi si passi la parola, relativamente marginali per impatto scientifico, figlio ovviamente del peso economico globale. 
In un altro servizio sempre preso da Media INAF l'argomento è introdotto con un titolo piuttosto ardito. L'astrofisica sarebbe addirittura "Femmina e latina"! Ardito ma suggestivo, evocando in effetti immagini cinematografiche mediterranee.

Non è ovviamente che manchino difficoltà o ambiguità, ma senza dubbio si tratta di un patrimonio di cui il nostro sistema accademico, spesso (ed arbitrariamente) denigrato se non dileggiato, può certamente gloriarsi. Abbiamo presenze femminili ad alto livello, come ad esempio la già citata Francesca Matteucci, ordinario all'Università di Trieste, accademica dei Lincei, presidente del Consiglio Scientifico dell'INAF, e chissà cos'altro...

Ma ci sono anche le nuove leve. Ragazze competenti ed appassionate di scienza. Ed ancora in occasione della festa della donna è proprio di una di queste di cui parliamo oggi, e nei prossimi giorni: Cristina Baglio.
Cristina è una giovane ricercatrice in forza all'INAF / Osservatorio Astronomico di Brera e all'Università Insubria di Como dove sta seguendo i corsi per ottenere il dottorato di ricerca. Cristina si è occupata in passato di binarie X, sistemi binari dove le caratteristiche fisiche delle componenti il sistema e la distanza fra le stesse generano fenomeni estremamente energetici e molto affascinanti. La tecnica osservativa di studio che ha applicato, insieme al suo gruppo di ricerca guidato da Sergio Campana e Paolo D'Avanzo, non è certo una delle più semplici, si è trattato di compiere analisi di polarizzazione.

Il compiere osservazioni è agli occhi degli appassionati e del grande pubblico l'attività principe degli astronomi. La figura dell'astronomo, barbuto e magari un po' misantropo, sul picco di una montagna con il suo telescopio è quasi parte dell'immaginario collettivo. Una figura non corrispondente certamente alla realtà, ma stridente in maniera quasi comica quando pensiamo che le osservazioni sono compiute, come sarà a breve il caso, da giovani donne!
Una magnifica sequenza di telescopi a La Palma

Cristina, infatti,  domani partirà con un collega, Igor Andreoni, altro dottorando di Brera, per una missione osservativa con l'obiettivo di compiere osservazioni polarimetrie. In questo caso di altre categorie di sorgenti e le osservazioni saranno effettuate con il telescopio NOT (Nordic Optical Telescope) da 2,5m situato sull'isola di La Palma, nell'arcipelago delle Canarie. Il NOT, come molti altri telescopi, è situato sulla cima di un vulcano spento dove abbiamo una delle più ampie concentrazioni di telescopi dell'emisfero nord. Un'ambiente affascinante  e ricco di suggestioni.

E come suggello del tema di oggi, donne ed astronomia, Cristina nei prossimi giorni ci comunicherà i suoi appunti di viaggio! Una maniera non del tutto ovvia di comunicare la scienza... con gli occhi delle donne di scienza!


venerdì 21 febbraio 2014

Cosa alimenta le stelle?

La risposta, almeno fra gli appassionati, è abbastanza nota. È la fusione nucleare, ovvero il processo tramite il quale da elementi semplici (idrogeno, elio, ecc.) si formano elementi più complessi producendo nel contempo energia che va in parte a sostenere le strutture stellari. 

Meno noto è forse invece che lo studio della catena di reazioni che si è trovato essere efficaci negli interni stellari ha generato una ricaduta inaspettata ed eccezionale allo stesso tempo. Le abbondanze degli elementi chimici che osserviamo nell'universo mostrano la traccia chiarissima delle reazioni di fusione stellari, ma per poter ricostruire l'arricchimento chimico dell'universo, come il processo viene chiamato, è necessario ipotizzare che le prime stelle si siano formate da una miscela di idrogeno ed elio pressoché puri, ed in percentuali relativamente precise. Una miscela che si può essere naturalmente formata se l'universo nei suoi primordi, ovvero prima che si formassero le prime stelle, ha sperimentato una fase di breve durata ma caratterizzata da grandi densità e temperature. Come dire le fasi immediatamente successive al fenomeno che noi chiamiamo oggi "big bang"!
La corrispondenza molto precisa delle abbondanze chimiche dell'universo con i risultati attesi per delle reazioni nucleari primordiali e poi successivamente quelle efficaci all'interno delle stelle è uno dei tre pilastri osservativi su cui si fondano le varie sfaccettature della teoria del big-bang. Le altre due, per inciso, sono l'osservazione del fondo cosmico di microonde e l'espansione delle galassie.

Tornando alla fusione nucleare all'interno delle stelle, uno degli aspetti più intriganti di tutto questo è che all'epoca della pubblicazione de "L'origine delle Specie" da parte di Charles Darwin, nel 1859, il dibattuto sulla reale età della Terra era estremamente sentito in quanto, ad esempio, i tempi necessari per l'evoluzione biologica erano ampiamente troppo lunghi per i meccanismi di sostentamento della luminosità solare che allora venivano ipotizzati. Era una critica nemmeno mal posta all'evoluzionismo biologico. Fu solo infatti diversi decenni dopo che divenne chiaro che il nostro mondo doveva esistere da almeno qualche miliardo d'anni, e che la fusione nucleare offriva un meccanismo plausibile per sostenerne la fonte di energia: il Sole.

Ma probabilmente l'aspetto più suggestivo, almeno a livello divulgativo, di tutta questa tematica è lo scoprire come letteralmente noi siamo "figli delle stelle". Gli elementi chimici di cui siamo composti sono stati sintetizzati, prima che il Sole ed il nostro sistema solare si formasse, all'interno di una stella di massa maggiore del nostro Sole. Questa, al termine della sua vita evolutiva, è quindi esplosa come supernova e ha "inquinato" il gas da cui il Sole si è formato di elementi pesanti. Elementi che circa 5 miliardi di anni dopo ritroviamo a formare la Terra e noi stessi.

Queste, ed altre tematiche, sono state argomento di una conferenza tenuta presso gli amichevoli locali del Planetario di Lecco su organizzazione del locale attivo gruppo astrofili (Deep Space) qualche settimana fa. 

Per chi fosse interessato le trasparenza della conferenza sono disponibili qui!

martedì 24 dicembre 2013

Natale... robotico!

Con quest'anno sono ormai 10 che abbiamo installato REM, "the Rapid Eye Mount telescope" a La Silla, Cile, presso uno dei due siti dell'ESO.

Quando abbiamo reso operativo questo piccolo strumento ne siamo stati, penso giustamente, orgogliosi. Uno dei primi telescopi completamente robotici con un parco strumenti complesso messo in linea in uno dei siti osservativi migliori del mondo.

Sono passati, direi volati, una decina d'anni ed aggiornamento dopo aggiornamento REM appare essere ora più in forma che mai.

E con un albero di Natale un po' inusuale, auguriamo Buon Natale a tutti quanti! 


Il parco strumenti di REM, proiettato sul fantastico cielo cileno,
offre un inusuale ma affascinate albero di Natale!

domenica 22 dicembre 2013

Scuola di qualità?

Immagino che non a molti sia noto di cosa si parli con l'acronimo PISA. Io comunque fra questi. 
Si tratta del "Program for International Student Assesment", o Programma per la valutazione internazionale dell'allievo. Si tratta di un'indagine internazionale promossa dall'OCSE, ovvero l'Organizzazione per  la Cooperazione e Sviluppo Economico, con lo scopo di valutare con una periodicità di tre anni il livello dell'istruzione per gli adolescenti dei paesi industrializzati.

Le verifiche si occupano di misurare il cosiddetto livello di alfabetizzazione letteraria, matematica e scientifica. Come per tutte le analisi statistiche i risultati vanno presi con qualche cautela, nel senso che non esiste la valutazione del tutto neutra. Vari parametri sono presi in considerazione, e certamente il peso da dare ad ognuno di questi può essere senz'altro argomento di dibattuto.

Ciò nonostante i risultati delle indagini OCSE-PISA sono degni di attenzione, e permettono di capire in maniera più oggettiva la qualità dell'istruzione nei vari paesi coinvolti per studenti nella fascia di età intorno ai 15 anni. Sulla stampa nazionale la pubblicazione dei risultati di queste valutazioni, ogni tre anni, in effetti trova qualche risalto, anche se talvolta limiti di spazio (e di atteggiamento) sembrano trasformare il tutto in un specie di resoconto calcistico. In pratica svilendo lo sforzo di sintesi che sta dietro queste valutazioni.

I risultati, come si diceva, sono in effetti interessanti. Il nostro Paese si classifica in maniera abbastanza mediocre, siamo intorno alla ventesima/trentesima posizione in dipendenza dalla categoria.  In pratica nella parte medio-bassa della classifica. Nel corso degli anni 2000 la nostra valutazione è sempre tendenzialmente peggiorata, per poi mostrare un qualche recupero nell'ultima tornata, quella del 2012.
Ai primi posti abbiamo paesi dell'estremo oriente, Giappone, Corea del Sud e Taiwan, oppure del nord-Europa, Finlandia, Paesi Bassi in testa.
Già questo ha aspetti interessanti in quanto abbiamo ai vertici sistemi educativi con una forte enfasi verso la competitività (Corea del Sud) ma anche con esplicita attenzione all'inclusione degli studenti con difficoltà (Finlandia). 
Allo stesso tempo l'entità dei finanziamenti dedicati alla scuola non è necessariamente l'unico fattore discriminante. Il contesto sociale e, soprattutto familiare, pare giocare un ruolo altrettante importante. Alcuni un po' più interessanti della media commenti su stampa sono stati forniti da Repubblica e dal Corriere della Sera nei rispettivi inserti dedicati alla scuola.

Nei risultati delle indagini contano evidentemente i valori medi ottenuti da studenti dei vari paesi, ma utile è anche controllare come si distribuiscono gli stessi a l'interno di un paese. Questa è una misura dell'omogeneità dei risultati all'interno di un paese. In Finlandia, per esempio, in pratica non c'è differenza fra la provenienza geografica degli studenti, al contrario in Italia abbiamo una situazione per certi versi paradossale. 
Premettiamo subito, a scanso di equivoci, che in seguito parleremo di nord, centro e sud in maniera relativamente schematica. È noto a tutti che le situazioni reali sono a pelle di leopardo. 
Ciò detto, come segnalato anche in alcuni editoriali, pur essendo ben noto ed evidente come il nostro Paese soffra di un elevato livello di disomogeneità economica, i risultati per gli studenti del nord, specialmente il nord-est, e quelli del sud, Sicilia in testa, sono stupefacenti. Mentre nel nord-Italia in generale gli studenti appaiono mediamente ben preparati e del tutto a livello non tanto della media europea, ma proprio dei paesi meglio organizzati, nel sud-Italia, con valide eccezioni, l'apparenza è di una situazione alla deriva, ormai fuori controllo.

Un'analisi dettagliata delle cause di questa situazione esula senz'altro dalle nostre possibilità, anche se appunto come già accennato oltre all'aspetto economico giocano questioni più sociologiche legate ai contesti sociali. 
Però il punto che vorrei sottolineare, senza particolare enfasi, ma come argomento di riflessione, è che la nostra tanto vituperata scuola pubblica probabilmente è in realtà molto meglio di quanto comunemente si pensi. Non mi riferisco qui a quelle forme di cretinismo culturale secondo le quali ciò che è "pubblico" è sinonimo di mediocrità e lassismo. E tantomeno desidero entrare nell'annoso dibattuto su come e se far convivere istruzione privata e pubblica. 

Più semplicemente mi pare che si possa osservare che in generale nel nord-Italia le scuole funzionano in maniera tutto sommato egregia. Siccome non stiamo parlando di casi isolati ma di un sistema diffuso mi verrebbe da pensare che il corpus legislativo che guida la scuola italiana, dall'inquadramento dei docenti, la definizione dei programmi, ecc. evidentemente in condizioni al contorno adeguate è perfettamente in grado di formare studenti ben preparati. Quantomeno ad un livello assolutamente comparabile con i migliori sistemi scolastici europei.  Badate bene che non intendo nemmeno entrare nel dettaglio dei vari aspetti legislativi che senza dubbio in maniera urgente richiedono un aggiornamento. O del complesso problema dell'introduzione di meccanismi valutativi e premiali per i docenti. Tutto vero, e sensato. Ma egualmente allo stato attuale delle cose il sistema è in grado di funzionare, ed anche molto bene. Il punto che mi parrebbe rilevante segnalare è che ogni intervento nei confronti della scuola non può avere senso se non tiene conto delle enormi differenze che registriamo sul territorio nazionale. Il rischio, per nulla teorico, sarebbe quello di condurre campagne politiche volte a risolvere problemi che in realtà non sono tali o che non sono quelli principali. O addirittura farsi prendere da manie distruttive in risposta al mediocre risultato d'insieme della scuola italiana in valutazioni internazionali, quando evidentemente il problema non sembra essere, almeno principalmente, nella scuola stessa ma nel contesto sociale al contorno che pare essere in grado di guidare l'efficienza di un sistema scolastico in maniera forse inaspettata.


domenica 24 novembre 2013

Mostri del cielo

Da ragazzo, credo nell'estate dopo la maturità, un secolo fa grossomodo, mi ricordo di avere letto un libro che mi piacque molto e che mi influenzò anche in seguito. Si trattava di un libro di divulgazione astronomica di Margherita Hack: "L'universo violento della radioastronomia", ancora per altro reperibile in libreria. 
Mi colpì l'aggettivo "violento". Le letture adolescenziali di astronomia che avevo gustato avevano, in genere, un approccio più classico, affascinato dai tempi lunghissimi dell'evoluzione stellare, più solenni per certi versi, ma meno vibranti. Un'astronomia di fenomeni veloci, di eventi per certi versi catastrofici, mi diede da pensare. La cosa faceva il paio con un altro libro letto sempre in quel periodo: "I mostri del cielo", di Paolo Maffei, anch'esso ancora reperibile. Oggetti esotici, inusuali, affascinanti facevano allora capolino nella mia formazione.

Non avrei mai immaginato che anni dopo, e non in seguito a scelte precise ma, in un certo senso, sull'onda degli eventi, il mio principale campo di studio in astrofisica sarebbe stato legato ad uno dei "mostri del cielo" per antonomasia: i Gamma-Ray Burst, o in italiano meglio lampi di luce gamma!

Senza dubbio i lampi di luce gamma, chiamiamoli da ora in avanti GRB per comodità, costituiscono  una delle classi di sorgenti più intriganti della moderna astrofisica. Come è abbastanza noto, la scoperta del fenomeno risale ai tardi anni '60, quando nel bel mezzo di spionaggi e controspionaggi da guerra fredda vennero messi a punti satelliti che, fra le altre cose, avevano la capacità di rivelare brevi lampi di radiazione di alta energia, lampi di luce gamma appunto. L'idea era quella di rivelare possibili esplosioni nucleari sulla superficie terrestre, e persino sulla Luna. Ma ciò che si rivelò fu ben altro... una storia un po' più completa di queste scoperte la potete leggere qui!

Comunque, a partire dalla metà degli anni '90 fino ancora ad oggi i GRB diventano argomento di importanza dominante nel panorama astrofisico. Da allora si è imparato molto, senza dubbio, per esempio conosciamo diverse classi di GRB, ne conosciamo la distanza (qui un breve commento a riguardo), abbiamo anche idee abbastanza precise di cosa generi l'impressionante liberazione di energia in tempi brevissimi che costituisce l'aspetto più estremo di questi fenomeni.

I GRB non sono eventi molto frequenti, anzi, possiamo dire che sono estremamente rari nell'universo. Il satellite Swift, il miglior "cacciatore di GRB" che abbiamo a disposizione, ne vede circa un centinaio l'anno. Detto così il numero non sembra piccolo, ed effettivamente è così. Il punto è che questi eventi sono così brillanti, sia pure per breve tempo, che in un certo senso li vediamo (quasi) tutti! Anche per i GRB, ovviamente, vale la regola generale secondo la quale più un evento è lontano mediamente è anche più debole da osservare. Ma tendenzialmente riusciamo a vederli a qualunque distanza e, anzi, fra gli oggetti più lontani mai identificati abbiamo infatti alcuni GRB.

Rimane vero però che si tratta di eventi rari, e questo ha come conseguenza che è un evento piuttosto inusuale quello di osservarne uno vicino... ora, intendiamoci, qui si parla sempre di distanze di tipo cosmologiche, quelle che gli astrofisica esprimono in termini di spostamento verso il rosso, o redshift.
Mediamente i GRB sono rivelati ad una distanza corrispondente ad un redshift di circa 2, ovvero a quando l'universo aveva solo grossomodo un quarto dell'età attuale. Ne sono stati osservati a distanze molto maggiori, redshift 8 o 9, quando l'universo aveva poche centinaia di milioni d'anni di età, ed anche a distanze minori. Però quelli osservati nel cosiddetto universo locale sembravano essere di una categoria diversa rispetto ai GRB noti come "cosmologici". Meno potenti, e probabilmente con differenze anche rispetto ai meccanismi fisici in azione.

Ma ecco che invece il 27 aprile di quest'anno il satellite Swift ha vinto una scommessa che durava dal suo lancio, avvenuto ormai 9 anni fa! Un GRB di tipo cosmologico ma a distanza corrispondente ad un redshift di circa 0.34, quando ormai l'universo aveva caratteristiche molti simili a quello attuale. Si tratta del GRB denominato GRB130427A, ovvero il primo rivelato il 27 aprile del 2013.

Non è difficile immaginare che avere a portata di mano, per modo di dire ovviamente, un GRB cosmologico ha scatenato l'attenzione di praticamente ogni osservatorio a qualunque lunghezza d'onda e dopo diversi mesi di lavoro frenetico abbiamo avuto la pubblicazione di ben 5 articoli più o meno in simultanea dedicati a questo evento. 4 sulla prestigiosa rivista Science ed uno sull'Astrophysical Journal. Una produzione poderosa certamente giustificata dall'eccezionalità dell'osservazione. Si calcola che eventi di questo genere accadano con una frequenza di circa un paio per secolo!

Questa serie di pubblicazioni che ha visto come protagonisti diversi diversi scienziati italiani, uno dei lavori è infatti a guida di Alessandro Maselli, dell'INAF / IASF di Palermo,  ha anche generato un'ampia ricaduta mediatica. Segnalo qui di seguito alcuni link per approfondire e gustare ciò che è accaduto!

lunedì 4 novembre 2013

Università e Sistema Paese

Esiste un punto su cui non c'è praticamente discussione in qualunque analisi socio-economica, di qualunque paese o contesto geo-politico si tratti. Ed è sul ruolo chiave della scuola, a tutti i livelli, come motore trainante dello sviluppo economico senza ovviamente in questo dimenticare il valore intrinseco della conoscenza.
Già in passato abbiamo parlato del  valore economico della conoscenza, in senso più generale, nell'ambito delle scienze fisiche. Tuttavia una relazione fra buona scuola e buona economia non è legato solamente ai settori più tradizionalmente vicini al mondo della produzione e della tecnologia. È un meccanismo più generale e piuttosto interdisciplinare. Buona scuola implica, o consegue, probabilmente entrambe le cose, da buone pratiche amministrative, da buona politica e buona società.

Il diagramma che segue, riportante il prodotto interno lordo (PIL) rispetto alla percentuale dello stesso spesa, genericamente, per istruzione, è esplicito. Ogni soldo speso in formazione ritorna con gli interessi in termini di competitività economica. La fonte dei dati, come riportato nella figura, è l'Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo (OCSE).

Non c'è dubbio per altro che tutti i meccanismi che rendono funzionale o meno un percorso di formazione diventino critici quando si discute dell'ultimo grado di formazione, ovvero quella universitaria. Grado certamente sempre più lontano da un'ambientazione di élite come era ancora qualche decennio fa per essere parte integrante della catena formativa.

Ma come è quindi veramente la qualità dell'offerta formativa universitaria in Italia?

Il tema non è solamente accademico, nel senso di essere parte di una discussione spesso un po' sterile sui principi primi dell'istruzione. Ha come abbiamo detto valenze economiche primarie e riguarda scelte politiche anche fondamentali, mettendo in campo diverse visioni ideologiche ed economiche.

Ad esempio, quanto sono buone veramente le università italiane? È vero che abbiamo troppe università e troppo piccole? Spendiamo troppo o troppo poco per gli studenti? I professori sono tutti parenti fra loro e non esiste alcuna richiesta di qualità?

Insomma un'ampia quantità di temi che è di importanza fondamentale che vengano discussi, e che purtroppo spesso si ha la precisa sensazione che comunque non escano mai dalla cosiddetta cerchia degli specialisti, risultando quindi sostanzialmente ininfluente nell'ambito della più ampia discussione politica nel Paese.

Ma partiamo da notizie che spesso ci sentiamo proporre dai media in varia forma. Ovvero: "le migliori università italiane sono lontanissime dalle posizioni di testa in una qualunque classificazione degli atenei dei paesi sviluppati".

La notizia è vera. Per esempio relativamente alla voce università italiane in wikipedia si vede che, tipicamente, in queste classifiche le università italiane sono presenti in posizioni di relativo rincalzo. Nel caso della classifica QS World University Ranking si scopre che in classifica ci sono, nel 2011, 21 atenei su un totale di 72 considerati in Italia fra i primi 700 nel mondo. E le migliori sono oltre la posizione 150.
Un sito spesso capace di fornire notizie e dati di grande valore per il mondo universitario e della ricerca è quello del ROARS, a cui faremo riferimento ampiamente anche in seguito. Il ROARS pubblica un'interessante tabella con i risultati per le università italiane relativi a classifiche stilate da vari enti.
In ogni caso, indipendentemente dalla classifica, grossomodo il risultato è che 25-30% degli atenei italiani sono in classifica ed in posizioni non vicine alla "vetta", anche se spesso anche lontani dalla "coda" vera e propria.

La valutazione del significato di questi risultati però, come sempre, richiede qualche ragionamento. Essenzialmente il punto è che ogni valutazione ha significato nella misura in cui i criteri di valutazione sono conformi ad un determinato obiettivo. Ad esempio, per intenderci, supponiamo di voler decidere quale è la "miglior macchina sul mercato". È evidente che potremo propendere verso un modello super-sportivo a grandi prestazioni, piuttosto che ad un altro parco di consumi, come ad una macchina grande e spaziosa o una city car. In dipendenza da quali criteri decidiamo di adottare che a loro volta devono riflettere l'obiettivo della valutazione. E, non ultimo, il costo che riteniamo di poter affrontare.
La questione delle università è della stessa natura. A quali criteri soggiace questo tipo di valutazione? La risposta è in effetti ben nota, e risiede nello stesso meccanismo per cui esistono società che si occupano della valutazione di aziende ed enti vari per suggerire se siano convenienti o meno come obiettivo di investimento, le ben note ed in parte famigerate agenzie di rating.

Ebbene, nel nostro caso, queste classifiche vogliono rispondere ad una domanda in fondo semplice: dove converrebbe far studiare i nostri figli? In queste valutazioni quindi ci sono una grande quantità di parametri che si legano, ad esempio, alla facilità di trovare lavoro post-laurea ed a quanto verrebbe pagato, alle "facilities" per studenti come dormitori, impianti sportivi, ecc. Al numero e qualità dei docenti, e così via. È una valutazione che guarda più che altro alle "prestazioni" piuttosto che al "costo/prestazioni". Le migliori università in questa categoria sono spesso anche le più costose.

Di fatto quindi, una volta meglio compresa la portata di queste valutazioni, appare abbastanza chiaro che il risultato delle università italiane è legato alle università stesse, e come tale non è sensato minimizzarlo, ma è anche a una valutazione del sistema Italia nel suo complesso. Mi pare che non sia molto difficile da intuire che se si ha la possibilità economica ci sono poche ragioni (tecniche) per far studiare i propri figli a Milano piuttosto che nei migliori atenei inglesi o americani. E questo in realtà anche se le università milanesi fossero quanto di meglio si potesse immaginare dal punto di vista didattico e professionale. Il fatto è che risulta difficile competere con l'impatto socio-economico del contesto in cui le migliori università di Boston o della California agiscono rispetto a scenari italiani (e non solo, ovviamente). In aggiunta il fatto che l'Italia sia una ventina d'anni che scala, al contrario, le classifiche di competitività economica ha ovviamente un evidente impatto su queste considerazioni.

Di conseguenza appare anche chiaro come la banalizzazione di queste valutazioni sulle università che spesso i media generalisti operano in termini quasi da stadio, possa essere funzionale ad un dibattito politico ormai sempre più dominato da opposti fondamentalismi, ma certamente con poco o persino nulla a che fare con la reale natura del problema.

Di argomenti di discussione invece ce sono moltissimi.
Per esempio uno dei punti che in queste classificazioni delle università appare spesso è che gli istituti più piccoli sono tendenzialmente penalizzati. Il motivo è semplice. Supponiamo di confrontare l'università X con, diciamo 1000 docenti e ricercatori, con l'ateneo Y con solamente 100 persone in quei ruoli. Ovviamente, a parità di qualità di questi professionisti, l'università X sarà in molte classifiche avvantaggiata in quanto più presente per impatto economico (numero di brevetti, spin-off aziendali...) o scientifico (numero di pubblicazioni...). Solitamente si afferma che le università siano appunto troppo piccole ed effettivamente si possono citare casi eclatanti di atenei al limite delle dimensioni operative.
Vuole dire questo che in Italia ci sono troppe università, magari troppo piccole, e quindi bisognerebbe ridurne il numero per favorire la crescita di poche grandi università?

Questa affermazione in effetti è comune, piuttosto complessa nella strategia complessiva,  è comunque anche falsa. Il grafico a fianco, tratto dal volume "Malata e denigrata: l'università italiana a confronto con l'Europa" a cura di M. Regini (Roma, Donzelli 2009), mostra come il rapporto fra offerta universitaria ed abitanti di alcuni paesi europei e Stati Uniti ci veda, al solito, in ultima posizione. Purtroppo sulla base di queste ed altre, altrettanto erronee, considerazioni è stata messa in atto una sostanziale riduzione del numero di corsi di laurea offerti dai vari atenei con risultati dubbi anche sulla possibilità di ottenere sostanziali risparmi economici.

Un altro punto che è importante nella valutazione dell'offerta formativa è senza dubbio il rapporto fra docenti ed allievi. Non c'è dubbio sul fatto che definire quale sia il rapporto ottimale, non necessariamente 1:1, è un obiettivo complesso. Però è altrettante certo che l'affollamento nelle aule e nel rapporto coi docenti di sicuro è nemico della qualità della didattica.

Il caso italiano è schematizzato nell'istogramma che segue, relativo all'anno 2010, i dati sono ancora di fonte OCSE. Appare evidente che il rapporto docenti/studenti in Italia è piuttosto sfavorevole. Aggiungiamo a questo il fatto che sono piuttosto pochi in Italia i giovani che frequentano l'università e si laureano (fonte Eurostat) e si delinea uno scenario in cui sia l'offerta universitaria che le strutture a disposizione appaiono del tutto sotto-dimensionate rispetto alle esigenze di un'economia avanzata.

Effettivamente, come abbiamo già ampiamente discusso in passato, il nostro Paese è fra i fanalini di coda anche per il numero di ricercatori, parametro che è ovviamente parzialmente legato a quello del numero dei docenti universitari.

Esempi di questo genere potrebbero continuare a lungo. La miopia della politica dedicata in questi ultimi anni all'istruzione, in particolare quella universitaria, appare del tutto inspiegabile indipendentemente dal colore politico o attitudine culturale.
Il punto chiave della questione è che il Paese spende troppo poco per l'istruzione universitaria. E vede questa spesa come, appunto, un peso e non un investimento. Ancora possiamo renderci conto dell'entità del problema con altri grafici.
Quello che segue, ammetto di un po' difficile lettura, mostra però quella che potremmo definire come spesa totale per università e ricerca universitaria per diversi paesi (anno 2009). Le fonti dei dati sono indicate in legenda. A prescindere da alcuni dettagli tecnici il risultato non richiede grande interpretazione, ed è per altro abbastanza  noto in quanto emerge da studi analoghi di diversa origine. Siamo fra i paesi che danno minore importanza all'istruzione universitaria, almeno a giudicare dagli sforzi che dedichiamo al settore.


La questione, come sempre, sta tutta nella definizione di opportune priorità. Nell'opinione pubblica è forte la convinzione che il dissesto finanziario del nostro Paese sia causato dallo sperpero di denaro pubblico da parte di politici e manager. C'è ovviamente del vero in questo, ma sarebbe anche bene che alla stessa opinione pubblica venga fornita una visione più matura della questione. Le auto blu, i super-stipendi, ecc. sono più che la causa del dissesto la conseguenza dell'applicazione di pessime pratiche amministrative che si rivelano a tutti i livelli, dalla gestione dei piccoli comuni alle grande aziende. E non solo e forse neppure principalmente nel pubblico per altro, come la vicenda infelice di tante grandi aziende italiane sparite dal mercato negli ultimi decenni sembra suggerire.
Di fatto, e fatto salvo che buone pratiche amministrative sono fondamentali ed ineludibili, i finanziamenti per l'istruzione, non solo universitaria, dovranno comunque competere con altri settori ad "alta sensibilità sociale", sanità, difesa, sicurezza, assistenza sociale, ecc. Se non si diffonde la convinzione che non basta ridurre lo stipendio dei parlamentari per portare gli investimenti in formazione ed innovazione nel nostro Paese ai livelli necessari credo che difficilmente si potrà aprire un dibattito proficuo. Un esempio chiaro della mancanza di programmazione che inevitabilmente porta a legislazioni di emergenza lo si può vedere nell'andamento del finanziamento alle università sotto forma del cosiddetto "Fondo di Finanziamento Ordinario", FFO. La fonte dei dati è il Consiglio Universitario Nazionale (CUN).
L'andamento temporale del FFO, corretto come doveroso per l'inflazione, mostra che negli anni 2000 è rimasto piuttosto stabile se non addirittura caratterizzato da un lieve aumento. Allo scoppiare della crisi dei mutui "subprime" intorno al 2008, prima avvisaglia della crisi globale che hai poi attanagliato le economie occidentali, vediamo che in seguito alla necessità di affrontare tassi di interesse sul nostro debito sempre più alti e la crescente sfiducia dei mercati il taglio dei finanziamenti universitari è stato sensibile e continuo come parte del più generale taglio della "spesa pubblica".

Una domanda allora diventa d'obbligo, e non è retorica. Il Paese sarebbe veramente pronto a considerare l'investimento in formazione come di massima priorità e quindi a rimuovere il comparto da quelli sottoposti a riduzione di spesa anche nell'emergenza finanziaria in cui ci troviamo?
La sensazione è che in realtà fino a che il problema non verrà affrontato a livello politico e di opinione pubblica senza artifici retorici e falsi miti difficilmente ci potrà essere un sostanziale cambio di rotta anche nei prossimi anni. Il richiamo al primo grafico mostrato in questo articolo, quello che mostra la relazione da PIL ed investimento in formazione, dovrebbe mostrarci senza ambiguità la strada da seguire, anche quando fosse di difficile digeribilità per un'opinione pubblica ormai in preda a derive demagogiche in tutti i settori.

sabato 29 giugno 2013

Un pensiero alla morte di Margherita Hack

Margherita Hack è stata certamente protagonista di una vita straordinaria. Scienziato di valore, impegnata nella vita intellettuale e politica del paese. 

Però mi piace ricordarla per un'impresa, un'autentica avventura editoriale, che l'ha vista coinvolta insieme a Corrado Lamberti nel dare vita ad una rivista di divulgazione scientifica che per qualche decennio ha costituito il punto di riferimento assoluto nel settore. Si tratta, ovviamente, de l'Astronomia. Anche oggi a distanza di anni ricordo con piacere quando da adolescente contavo i giorni per l'uscita in edicola del nuovo numero e cominciavo a leggerlo dalla fine, da una rubrica chiamata "Rampa di lancio". 

Perché l'Astronomia è stata importante? Perché in barba a tutti gli scontati stereotipi sul panorama culturale italiano, orrendo risultato della tracimazione della competizione politica nel sociale, non si era mai visto prima, e non solo in Italia a dire il vero, una rivista di settore superare i ristretti confini del pubblico di nicchia per diventare di rispettabile tiratura e modellare un'idea di nuova di divulgazione scientifica. Aperta alla cultura umanistica, ricca di spunti intellettuali, e sempre originale e creativa.

E fu anche divertente, anni dopo, quando diventai anch'io astronomo, conoscere di persona molti degli autori di articoli divulgativi che a sul tempo avevo letteralmente divorato. 

Non posso dire che l'Astronomia mi abbia influenzato nella decisione di diventare astronomo, lo avevo già deciso molto prima, ma certamente mi ha accompagnato nel crescere della convinzione e della consapevolezza. E non penso di sbagliare dicendo che questa rivista è stata la compagna di formazione di un'intera generazione di astronomi italiani.

Credo che per molti di noi, professionisti dell'astronomia, pochi riconoscimenti professionali potrebbero essere più graditi. E nel caso di Margherita Hack, ampiamente meritati.