giovedì 9 agosto 2012

Competitività della ricerca e finanziamenti europei

Alcuni mesi fa ho assistito a Lecco, organizzato dalla locale Camera di Commercio, ad un incontro sul tema della relazione fra formazione ed innovazione. L'area lecchese, ho scoperto, ha il privilegio di essere uno dei migliori esempi italiani di sinergia fra università ed aziende. 

All'incontro ha partecipato anche il min. Profumo, ed in particolare ricordo un passo del suo discorso in cui, senza mezzi termini, diceva che il livello del finanziamento pubblico alla ricerca nei prossimi anni sarà, nella migliore delle ipotesi, costante e che, in ogni caso, era da considerare solamente come un aiuto per piccoli progetti mentre il grosso dei finanziamenti dovrà arrivare da bandi europei. Quello che accade, infatti, è che l'Unione Europea ha attivi dei programmi per il finanziamento della ricerca di base ed applicata ai quali possono partecipare ricercatori, sia di enti pubblici che privati, da tutta Europa ed anche spesso da alcuni stati coi quali ci siano accordi specifici.

Come alcuni ricorderanno abbiamo tempo fa parlato di un collega di Brera, Luigi Guzzo, che è stato appunto premiato con un cospicuo finanziamento per condurre ricerche su temi legati alla cosmologia.

Non desidero ora entrare nel merito della discussione, complessa, su quale debba essere la fonte migliore di finanziamento per ricerca di base, anche di questo ne abbiamo già parlato per altro. Tuttavia sia dall'intervento del Ministro che in generale tramite notizie a mezzo stampa e TV sappiamo che l'Italia, a margine di una competitività eccellente dei propri organismi di ricerca parrebbe essere invece uno dei paesi agli ultimi posti in Europa per le capacità di attrarre finanziamenti premiali. Un tema ricorrente, anch'esso ben noto, è che noi in Europa spendiamo più di quanto siamo capaci di ricevere. 

Si badi che qui si parla specificatamente di fondi premiali per ricerca e sviluppo, non entro nel merito di altre voci di finanziamento europeo che coinvolgono altri settori come la Pubblica Amministrazione in generale. Fondi premiali significa, essenzialmente, che per avere accesso a questi fondi è necessario preparare un dettagliato programma di ricerca, un piano di spesa, ecc. e che lo stesso viene valutato da apposite commissioni in una o più fasi successive.

Ebbene, come stanno le cose?

Diamo un'occhiata al grafico che presento qui di seguito: 

E' ricavato dalla pubblicazione "Strategic Plan for Astronomy in the Netherlands 2011-2020 (http://xxx.lanl.gov/abs/1206.5497). L'istogramma mostra, limitatamente all'astronomia, il numero di finanziamenti fra il 2008-2011 ottenuti da vari paesi europei, in assoluto e normalizzati alla popolazione degli stati.
Come possiamo vedere il numero assoluto di finanziamenti ottenuti dall'Italia è abbastanza lusinghiero, ma una volta che normalizziamo il tutto alla popolazione del paese ecco che in questa classifica siamo al penultimo posto. Dopo la Germania, anch'essa non molto ben piazzata, e prima della Polonia. A margine segnaliamo come l'Olanda in questa classifica eccella ed in effetti l'organizzazione della ricerca scientifica e formazione olandesi sono realmente uno dei punti di eccellenza di quel paese.

Tuttavia prendere questi risultati senza discussione rischia di portare a risultati a dir poco fuorvianti. Con un collega di Brera, Giacomo Bonnoli, abbiamo infatti cercato di capire meglio quale sia il livello di competitività italiana in questo settore. Se non altro per risolvere l'evidente contraddizione fra un settore, quello della ricerca, che si dice, ed i numeri lo confermano, essere una delle punte di diamante del sistema Italia e che invece non appare essere molto ben valutato a livello europeo.

Come sempre il problema è che le statistiche sono uno strumento prezioso, insostituibile, di analisi socio-economica a patto di sapere cosa si fa, e di farlo bene. C'è sempre spazio per miglioramenti ed affinamenti, ma non c'è spazio di superficialità ed approssimazioni. 

L'idea fondante della nostra analisi è che appare senz'altro vero che diamo all'Europa più di quanto siamo in grado di recuperare. Tuttavia, i contributi versati da ogni paese sono naturalmente proporzionali al PIL dello stesso, che nel caso dell'Italia è comunque di tutto rispetto. La "popolazione" che è in grado di competere per ottenere i finanziamenti, ovvero i ricercatori, nell'accezione più ampia del termine, è invece, e non è un segreto, molto ridotta per un paese ad economia evoluta come il nostro. Questo sia in rapporto alla popolazione generale, quella utilizzata nel grafico precedente, sia in rapporto al PIL stesso. 

Innanzitutto abbiamo cercato di ottenere dei dati sufficientemente aggiornati sui finanziamenti europei per la ricerca. Le fonti possono essere le più disparate, ma noi abbiamo utilizzato questa basata sul magazine online della Società Italiana di Statistica. 
Dall'articolo segnalato riportiamo una tabella relativa al programma quadro FP7, ovvero il più recente fra i programmi di finanziamento europei. La tabella che ci interessa è mostrata di seguito:


Come vediamo, a confronto con altri 5 grandi stati europei, Germania, Francia, Regno Unito, Olanda e Spagna, il nostro Paese ha una percentuale di successo nell'ottenimento dei finanziamenti di poco più del 18%, minore di quello di tutti gli altri paesi considerati, anche se non dissimile a quello della Spagna. Di seguito in forma grafica:


Ora, a dire il vero, una percentuale del 18% non è affatto disprezzabile, rimane però vero che gli amici olandesi arrivano al 26.1%, come dire che per noi meno di una domanda su 5 è finanziata, mentre per loro più di una su 4. E' un segno, quindi, che effettivamente un "gap" di competitività con i (migliori) paesi europei esiste. Non mi dilungo in questa sede a cercare di identificarne le cause, ma sarebbe anche questo un interessante ed importante argomento di discussione.

In questo sito, invece, abbiamo recuperato dei dati ragionevolmente aggiornati sul prodotto interno lordo (PIL) di vari paesi europei (al 2010) sia totale che pro-capite. Riporto di seguito la tabella principale:


Come si vede, ed è ben noto, Italia e Spagna sono fra i 6 paesi considerati quelli con PIL pro-capite più ridotto, sebbene naturalmente non disprezzabile in assoluto. Rispetto all'Olanda ogni cittadino italiano, per semplificare, risulta avere a disposizione il 30% in meno di reddito. Un valore, si badi, enorme se pensato in una prospettiva di popolazione.

Infine presso l'Ufficio Europeo di Statistica, l'Eurostat, abbiamo recuperato informazioni sul numero di ricercatori (al 2010) impegnati nei vari settori nei vari stati europei e, come riferimento, Giappone e Stati Uniti. Per i "non addetti ai lavori" il numero di ricercatori è espresso in unità di FTE, o "Full Time Equivalent". Si tratta di una maniera che permette di confrontare la forza lavoro a disposizione superando in parte le differenze legislative, organizzative, ecc., esistenti fra paesi differenti. Anche qui riporto la tabella principale per i nostri scopi:


E si vede che anche in questa classifica l'Italia è lontana, anzi, lontanissima, dalle posizione di vetta. Vediamo meglio in forma grafica per i 6 paesi che abbiamo scelto per la nostra analisi:



E qui uno dei problemi del nostro Paese emerge con chiarezza. L'Italia investe in innovazione veramente molto poco, anche normalizzando i dati alla ricchezza del Paese, ovvero al PIL. I ricercatori, nel nostro Paese, sono merce rara.

A questo punto, mettendo insieme tutti questi dati, si ottengono risultati notevolmente interessanti e, direi, chiarificatori.

Come possiamo immaginare, la capacità di chiedere finanziamenti in regime premiale, e di ottenere risultati lusinghieri, dipende essenzialmente dalla capacità del "sistema ricerca" di produrre domande ben preparate e competitive, ed ovviamente dal numero di ricercatori che possono competere. Se proviamo a normalizzare le domande preparate dal nostro Paese alla forza lavoro per la ricerca, ovvero in sostanza al numero di ricercatori, pubblici e privati, che queste domande le possono preparare abbiamo che questi grafici ci comunicano una visione molto diversa della competitività italiana:



Come vediamo, prima di tutto il numero di richieste provenienti da ricercatori del nostro Paese è elevato, paragonabile a quello dell'Olanda se normalizziamo alla forza lavoro disponibile per la ricerca. Contrariamente alla percezione comune, i ricercatori italiani competono frequentemente a livello europeo, probabilmente anche spinti da una mancanza di finanziamenti "interni" che diventa sempre più severa anno per anno. Ed inoltre il tasso di successo in proporzione al numero di ricercatori è assolutamente prestigioso. Meglio di buona parte dei partner europei, e secondo solamente a quello dell'Olanda che, come abbiamo visto, è oggettivamente un paese all'avanguardia in questo contesto.

Per cui, in buona sostanza, non solo la ricerca italiana, pubblica e privata, si mostra estremamente competitiva, anche se ci sono chiari margini di miglioramento. Ma la mancanza di efficacia nel riportare "in casa" i finanziamenti a disposizione appare essere ampiamente attribuibile alla ridotta forza lavoro a disposizione. A tutti gli effetti l'Italia, non mettendo in campo una politica ambiziosa (o anche solamente sensata), a sostegno della ricerca ed innovazione, si trova paradossalmente a finanziare ricercatori di altri paesi per il semplice motivo di non averne a sufficienza nel proprio Paese. 
Addirittura quello che emerge è che, a fronte di risorse assolutamente non paragonabili a quelle a disposizione dei diretti concorrenti, buona parte del distacco in termini assoluti nella capacità di attrarre finanziamenti è recuperato proprio grazie alla vitalità (ed efficienza) della relativamente esigua coorte di ricercatori a disposizione.  

In un recente passaggio del Ministro, da un articolo comparso su Repubblica, si parla di 500 milioni "mancanti" proprio nel settore ricerca e innovazione. Per ottenere questi soldi bisognerebbe sostanzialmente raddoppiare la nostra capacità di attrarre finanziamenti. Verrebbe da dire che basterebbe avere un numero di "operatori" almeno in linea con quello dei paesi con i quali dovremmo confrontarci per ottenere il risultato desiderato. E tutto questo senza necessità di alcuna rivoluzione nella struttura degli enti di ricerca, università, ecc. 

Al lato pratico tuttavia nei prossimi anni invece l'Italia ha intrapreso con decisione la politica di ridurre, non aumentare, il numero di professionisti della ricerca, per lo meno, quelli su fondi pubblici. Questo non è il risultato di una specifica scelta politica, ma la conseguenza della mancata identificazione del settore ricerca (e formazione) come strategico, e quindi l'applicazione al settore dei vari provvedimenti volti al contenimento della spesa pubblica (blocco delle assunzioni, limitazione del turn-over, ecc.). Non appare, probabilmente è pleonastico dirlo, una politica molto saggia e lungimirante. 

Passatemi un paragone calcistico. Sarebbe folle un paese che decidesse di finanziare un campionato europeo alla pari di altri paesi europei, per poi scoprire però che non si hanno squadre sufficienti per partecipare e che quindi quei soldi, pagati dai contribuenti, verranno utilizzati da giocatori di altri paesi. E che, pur coscienti del problema, si è in aggiunta anche deciso di ridurre il numero di quelle esistenti. 
Del calcio, magari, si può anche fare a meno. Di ricerca ed innovazione in un paese come il nostro temo proprio di no.



2 commenti:

  1. Esatto Stefano,
    ma passami un paragone più drastico ancora, sempre calcistico:
    partecipiamo all'organizzazione di un campionato di calcio (a 11) e ci presentiamo alle partite con una squadra di calcetto (a 5)....

    Invece, siamo secondi dopo gli olandesi - e nemmeno tanto staccati - per i rapporti di "domande approvate su Ricercatori FTE" ed "euro di finanziamento ottenuti su Ricercatori FTE".

    Si puo' sempre migliorare, ma non siamo poi così inefficienti.
    Francia e Germania sono molto più munifiche e "materne" dell'Italia con sistemi della ricerca, se vuoi, ben più ciclopici e inefficienti, almeno per quanto emerge da questi numeri. Loro sì che, con buona probabilità - non ho fatto i conti - vanno in rosso pesante, tra i trasferimenti alla UE e i bandi vinti...! Non mi pare che si straccino le vesti.

    Ad ogni modo, il gap in efficienza additato dal Ministro è di circa il 40% (rispetto ai - probabilmente irraggiungibili - primi della classe, sul tasso di domande di finanziamento "premiate": dal nostro 18.3% al 26.1 olandese), ma il gap numerico è del 100%! Un impatto quindi molto maggiore sullo stesso risultato globale.

    Posso intuire le ragioni (sbagliate) per omettere di impegnarsi a correggere questo ovviamente limitante divario (che crescerà, coi blocchi del turn-over); l'onestà intellettuale imporrebbe almeno di ammetterne sia l'esistenza che l'importanza relativa, e di citarle pubblicamente con ugual forza (almeno...).
    Ammettere che siamo molto più sottodimensionati che non inefficienti sarebbe già un passo avanti e un aiuto.

    Se non altro per contrastare l'immagine negativa che sicuramente si crea nella popolazione generale, anche grazie a tutte queste (sprezzanti? irriguardose? colpevolmente superficiali?) "cancellazioni di massa" di EPR seguite da ripescaggi rocamboleschi in extremis.

    Ossia (ci scommetto) immagine di Enti "inutili" o poco ci manca (tipo "Ente per l'omologazione delle collezioni di farfalle"), pletorici e pleonastici, pieni di raccomandati assistiti, imboscati a non far nulla. Che poi vengono (salomonicamente) soppressi in tempo di tagli, e ripescati (ingiustamente) grazie a un misto di "carità samaritana" da parte del governo e efficaci azioni di lobbying baronale da parte dei loro ammanicatissimi vertici.
    Perché questo è, l'alfabetizzazione scientifica italiana è tale che nessuno ha idea di cosa si faccia... e ci scommetto che se facciamo un giro a domandare, il quadro che viene fuori sarà poco diverso da questo.

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  2. Aggiungo anche questo link: http://qn.quotidiano.net/primo_piano/2012/09/11/770408-sprechi_minano_ricerca.shtml

    Normalmente non trovo molto costruttivo partecipare al coro dell'antipolitica o anche solo della lamentela sterile magari fine a se stessa. Però l'insistenza nella comunicazione all'opinione pubblica di visioni distorte e qualunquiste del mondo della ricerca italiana da parte di chi dovrebbe avere una conoscenza diretta della situazione risulta alla fine amareggiante.

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